310.

Il signor Tamburini, l’idraulico, arriva per un sopralluogo appena prima di pranzo.
Indossa dei vestiti macchiati di calcinacci, olio, segatura e sangue.
Lo accolgo con un sorriso.
«Buongiorno».
«Ciao» mi dice. «Dove?».
«Per di qua».
Gli faccio strada. Quando arriviamo al muro del corridoio gli indico la macchia di umidità.
«Vede?».
Lui si sdraia sul pavimento e annusa la macchia, la tocca, la lecca. Poi si tira su e apre la porta del bagno. Entra, io lo seguo. Osserva le piastrelle che rivestono il muro in corrispondenza della macchia nel corridoio. Sembrano normali piastrelle.
«Mmm».
«Grave?».
«Non so».
Comincia ad annusare le piastrelle. Dà dei colpetti con il pugno, colpetti abbastanza forti. Pugni, in pratica. Poi, sempre annusando e ispezionando, si sposta lungo il muro fino alla doccia, un metro più in là. Apre la porta della doccia, entra, chiude la porta.
Resto lì così, senza dire niente, finché sento l’acqua scorrere. Dopo un paio di minuti l’acqua viene chiusa, la porta si apre e il signor Tamburini esce, completamente asciutto. Si dirige al lavandino e apre l’acqua, poi va ai sanitari, tira l’acqua del water, apre quella del bidè, apre la finestra, alza la zanzariera, spalanca gli scuri, si arrampica sul davanzale ed esce. Sento il traffico in strada, i clacson delle automobili.
Qualche minuto più tardi il signor Tamburini rientra. In mano ha una tegola, il nostro appartamento è al primo piano di tre.
«Le tegole sono vecchie» dice, mostrandomela.
«La perdita è causata dalle tegole?» chiedo io.
«La perdita?» dice lui, consegnandomi la tegola, «No».

9.5.18