Chinaski77


Soglia, Mezza Soglia e Soglia Marina

Dove sono nato io ci sono questi due ragazzi che da almeno quindici anni occupano la maggior parte del tempo facendo lunghe passeggiate per le vie del paese, durante le quali parlottano continuamente tra loro con un reciproco interesse e uno sforzo di concentrazione irreali. Nel corso del tempo si sono diffuse diverse leggende sul conto di queste chiacchierate. Le fonti spesso si contraddicono e sono incerte, però sembra abbastanza sicuro che il principale argomento di conversazione siano i giochi di ruolo, quelli con i maghi e le saette e gli incantesimi forza quattro. La prova si è quasi avuta quando, un giorno che il sottoscritto e certi altri tizi si era sulla soglia del bar, i due ci sono passati davanti e quello alto ha distintamente detto a quello piccolo (che a quanto pare è il capo): «… allora, c’è la soglia, la mezza soglia, la soglia marina…». Da quel giorno – sono passati dieci anni – i due ragazzi per noi si chiamano Soglia (quello alto) e Mezzasoglia (non si sa nulla di Soglia Marina), e non facendo altro nella vita che andare avanti e indietro raccontandosi avventure di draghi, pozioni e amuleti, beh, sono il più chiaro prototipo di quelli che diresti due sfigati. Ma. Una sera, mentre si era al bar (un altro bar) e si beveva più o meno il solito, ci è venuto da dire che, forse, le cose potrebbero stare diversamente. Pensate che cosa significhi, in fondo, essere giudicati da un frammento di conversazione vecchio di un paio di lustri: poche parole decontestualizzate che vi marchiano a vita, che vi imprigionano in un personaggio o in uno stereotipo che magari non vi appartiene. E così ci siamo immaginati in che modo quella frase, ricontestualizzata, potesse non significare che i due fossero necessariamente due sfigati senza speranza, ma addirittura, che so, il contrario. Per una chiara comprensione del meccanismo, bisogna suddividere la scena in tre sezioni, come rappresentato in figura, dove i tre pallini azzurri saremmo noi del bar (io sono quello più alto), i pallini rosso e verde rispettivamente Soglia (S) e Mezzasoglia (MS) e la freccia blu la loro direzione di movimento. La frase incriminata, dunque, è tutta la parte del discorso percepita: corrisponde al segmento B e rimane invariata.


1. Riportato

A)

MS (con voce profonda): «Allora, poi te la sei fatta quella tipa?».
S (con voce tipo Clark Gable): «Ah, non me ne parlare, ti prego».
MS: «Che è successo? Era uno schianto».
S: «Sì, ma poi cerco di fare un po’ di conversazione e lei si mette a parlarmi dei giochi di ruolo, ti rendi conto? Con la sua vocina stridula mi dice…».

B)

S (con vocina stridula): «… allora: c’è la soglia, la mezza soglia, la soglia marina!».

C)

MS: «Ah ah… starai scherzando».
S: «Macché. Mi è caduto l’uccello».
MS: «Ah ah. Immagino».

2. Lap dancer

A)

MS: «Com’è andata ieri?».
S (voce stridula): «Ah, è bellissimo. Ci sono tutte le lap dancer con i privé…».
MS: «Ma te le puoi fare?».
S: «Beh, ci sono tre stanze con dei nomi strani fatte apposta per quello».
Ms: «Strani come?».

B)

S: «… allora: c’è la Soglia, la Mezza soglia, la Soglia marina!».

C)

MS: «Bello. E te ne sei fatta qualcuna?».
S: «Ovvio. E senza pagare».

3. Controbalzo

A)

MS (con voce profonda): «… e così sembra che mi paghino i diritti, oltre all’ingaggio e…».
S (Gable): «Ah, niente male… ehi, aspetta, ci sono quegli sfigati davanti al bar, sei pronto?».
MS: «Sì, sì…vai!».

B)

S (stridulo): «… allora: c’è la soglia, la mezza soglia, la soglia marina!».

C)

MS: «Ah ah! Hai visto che facce? Chissà cosa pensano…».
S: «Ah ah! Sì. Li tiriamo scemi. Tra dieci anni ne parleranno ancora».
MS: «Ah ah…».

4. Soprannomi

A)

MS (con voce profonda): «… e così sembra che mi paghino i diritti, oltre all’ingaggio e…».
S (Gable): «Ah, niente male… ehi, aspetta, ci sono Soglia, Mezzasoglia e Sogliamarina davanti al bar, sei pronto?».
MS: «Sì, sì…vai!».

B)

S (stridulo): «… allora: c’è la Soglia, la Mezzasoglia, la Sogliamarina!».

C)

MS: «Ah ah! Che sfigati di merda».
S: «Sì, li odio. Soprattutto quel Soglia».

5. Signs

A)

Ms: «Uhduuspsidj». (Dove hai parcheggiato la capsula?)
S: «Suhoshd dsid». (Mboh.)
MS: «Ushdush djj!!!». (Uh, guarda: umani. Cerca di dire qualcosa di sensato nella loro lingua.)
S: «Usdhd odffd». (Ci penso io.)

B)

S (stridulo): «… allora: c’è la Soglia, la Mezzasoglia, la Sogliamarina!».

C)

Ms: «Idwihdd?». (Bravo. Dovrò decidermi a impararla anch’io.)
S: «Shuus». (.)

6. Raptus

A)

Ms (con voce profonda): «Allora come va il mercato?».
S (Gable): «Abbastanza bene, anche se sono un po’ preoccupato dall’andamento incerto dei titoli a media capitalizzazione…».

B)

S (stridulo): «… allora: c’è la Soglia, la Mezzasoglia, la Sogliamarina!».

C)

MS (spaventato): «Oddio… stai bene? Che ti è preso?».
S (disorientato, tastandosi la gola): «Giuro che non lo so…».

7. Fantasy

A)

MS: «Non ci credo!».
S (voce stridula): «Ti assicuro, poi apri la botola e scendi al livello sotterraneo».
MS: «Ma quanti livelli ci sono?».

B)

S: «… allora: c’è la soglia, la mezza soglia, la soglia marina!».

C)

MS: «Ma dai, è impossibile. Nessuno c’è mai riuscito».
S: «Cazzo, ti giuro. Ora ti faccio vedere…».

Estrae una bacchetta da sotto la giacca, urla «MEZZA SOGLIA!» e al centro della strada compare una botola.

MS: «Incredibile».
S: «Dài, scendiamo».


I due aprono la botola e scompaiono nel sottosuolo.

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Zimbello dentro

Siccome essere dedotto mi svilisce, cerco sempre di passare inosservato, se posso, e cerco sempre di non dare pretesti alla gente per farsi un’idea di quello che sono.
Non sempre, però, riesco a non dare nell’occhio e a non farmi riconoscere praticamente subito. Basti considerare il fatto che sono maldestro e che lo sono sia perché ho una percezione distorta del mio corpo nello spazio, sia per un motivo prettamente psicologico, ovvero che il mio cervello è molto performante fino al primo errore, ma se commette il primo errore cede di schianto e infila, per sconforto, una serie negativa di piccoli incidenti automortificanti che lo fanno precipitare in un circolo vizioso dal quale non sa più uscire.
Per fare un esempio, tempo fa, al supermercato, è andato tutto bene fino a quando sono arrivato in cassa, dove, per colpa di una donna ostile, si è svolta la seguente scena:

Io: «Ciao!».
Cassiera: «Mm».
Io: «Mi puoi dare una busta?».

La cassiera borbotta qualcosa di incomprensibile. Io capisco una busta? e rispondo di conseguenza.

Io: «Sì, una».

La cassiera mi guarda come io guarderei la cassiera se non avessi bisogno di lei per uscire dal supermercato con la mia spesa.

Cassiera: «Ho detto se ha la nostra tessera».
Io: «Ah. No, mi dispiace…».

La cassiera mi dà la borsa. A questo punto, però, avendo commesso un errore, il mio cervello si sente umiliato e comincia un fitto dialogo con il sottoscritto.

Cervello: È finita.
Io (infilando la spesa nella borsa): Ma dai! Per così poco…
Cervello: Sono un fallito. Non capisco le parole.
Io: Ha parlato a bassa voce.
Cervello: Un tempo l’avrei capito. Era facile.
Cassiera: «Sono 32 euro e 15 centesimi».
Cervello: Occhio che devi pagare.
Io (sempre impegnato con la spesa): sì, vado. Quanto ha detto?
Cervello: Boh. Ventidue euro e qualcosa.

Porgo una banconota da venti e una da cinque. Sorrido.

Cervello: Aspetta, forse era…
Cassiera: «No. Guardi che sono trentadue e…»
Io: «Cosa?».
Cervello: Sono un fallimento.
Io: Non parlavo con te.
Cassiera: «… quindici centesimi».
Cervello: Da’ quindici centesimi alla troia.

Confuso, do alla cassiera altri venti euro.

Cassiera: «Non ha quindici centesimi?».
Cervello: Non darglieli!
Io: «Ehm. No».

Mentre lo dico, dal portafogli mi cade una manciata di monetine da cinque e dieci centesimi. La cassiera ne raccoglie un paio e scuote la testa come a dire, testualmente, che stronzo.

Cervello: Sempre peggio. Ora ti odia.
Io: Andiamocene via.
Cervello: Prendi lo scontrino, almeno.

Prendo lo scontrino e abbandono la cassa. Mi sento già meglio, arrivo fino agli ascensori.

Cervello: L’hai presa tu la spesa?
Io: «Ma porca…».
Cassiera (correndo verso di me con la spesa): «Signore!!!».
Cervello: Oddio, che figura. Sento che sto per farmela addosso. Ti ha chiamato signore? Te l’avevo detto di farti la barba. Che giornata terrib…
Io: Per l’amor di Dio, zitto! «Ehm, grazie, grazie…».

La cassiera mi porge la spesa. Io prendo e poi entro in ascensore, pestando un piede a una signora.

Signora: «Ahi!».
Io: «Oddio… sono mortificato, mi scusi…».
Cervello: Che incubo…
Signora: «E stia attento! È cieco?!».
Cervello: E sordo!
Io: «Mi scusi, davvero…».
Signora: «Cretino…».
Cervello: Ha ragione.

Le porte dell’ascensore si chiudono.

Per evitare questi drammatici episodi, ho dovuto elaborare una linea di comportamento basata su una semplice regola: qualsiasi cosa succeda, fingi di averla voluta.
Questo sistema riesce a sedare il mio cervello, che ultimamente ha imparato a mantenere la calma in ogni momento. È possibile dunque rivedere la situazione precedente, come andrebbe oggi, tenendo conto che gli errori, per quanto esposti in sequenza, sono da considerarsi isolati.

Io: «Ciao!».
Cassiera: «Umpf».
Io: «Mi dai una borsa?».
Cassiera (a bassa voce): «Ha la nostra tessera?».
Io: «Sì, una».
Cassiera: «Ho detto se ha la nostra tessera».
Io: «Sì, ho capito. E sì, ne ho una».
Cassiera: «Me la dà, allora?».
Io: «No. Oggi ho deciso di non usarla».

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Cassiera: «Sono trentadue euro e quindici centesimi».
Le do venticinque euro.
Cassiera: «Ho detto trentadue e…».
Io: «Sì, avevo capito. Ma ho soltanto questi».
Cassiera: «Allora deve lasciare qualcosa».
Io: «Sì».

Lascio parte della spesa. Poi me ne vado, sorridente.

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Cassiera (correndo verso di me con la spesa): «Signore!!!».
Io (impassibile): «Cosa?».
Cassiera: «La sua spesa. L’ha dimenticata».
Io: «Ah, no. Non la voglio più».
Cassiera: «Ma l’ha pagata».
Io: «Sono ricco. La regali ai clienti più bisognosi».

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Entro in ascensore e pesto un piede a una signora.

Signora: «Ahi!».

Io: «Così impari, puttana».

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Oh sob


Nel preciso momento in cui deve succedere, e succede, la depressione arriva, ti mette un braccio intorno al collo, ti dà un colpetto nel fianco e sussurra, proprio come se fossi un vecchio amico, «ma dove cazzo sei stato?».
Tu fai una mezza smorfia e non rispondi. Lei intanto sta sistemando i bagagli: una grossa valigia nera, due borsoni da viaggio e una custodia da violino che ha pochissime probabilità di non contenere, per l’appunto, un violino.
Osservi la smisurata mole di suppellettili e deglutisci faticosamente. Poi chiedi, con malcelata preoccupazione, «ma… quanto ti fermi?».
Lei sorride e fa spallucce.
Non appena ti riprendi dallo sbigottimento, però, reagisci.

«No, no… guarda… io non posso ospitarti perché devo…» le dici.
«Devi?» ti chiede lei.
«Beh. Studiare».
«Buh-ah-ah-ah!».
«Scrivere?».
(Ininterrotta) «… ah-ah-ah! Sì,» ti dice asciugandosi una lacrima, «certo. Magari posso darti una mano. Che cosa scrivi adesso?».
«Tipo barzellette».
«Uhm… non è proprio il mio genere…».
«Infatti!».
«Ma possiamo provare».

Ti lasci cadere sul divano, poi cominci a fissare il pavimento.
«Sigaretta?» ti dice offrendoti una sigaretta.
Tu prendi la sigaretta.
«Ci facciamo un aperitivo?» ti chiede.
«Ma sono le 9 del mattino…»
«Come vola il tempo!» dice, festante, dopodiché si mette a sedere sulla poltrona e rimane immobile e ferma.
Al pranzo pensa lei. Quando è ora, comincia a trafficare in cucina, poi ti chiama: «In tavola!».
Ti trascini di là e contempli per qualche istante un tramezzino col tonno. Lei se ne sta lì, tutta sporca di farina e con indosso il grembiule. Sorride.
«Dài che si fredda!» ti dice.
«Veramente non ho fame» le rispondi, sconsolato.
«Mmm, capisco. Magari una sigaretta?».
Prendi la sigaretta.
Nel pomeriggio apre la valigia e prende un grosso album di fotografie, poi si siede accanto a te e comincia a sfogliarlo.
«Uh! Ti ricordi questa?» ti chiede porgendo una sigaretta.
«Non mi sembra salutare» le dici prendendo la sigaretta.
«Povero caro» ti dice porgendoti un’altra sigaretta.
«No, grazie» le dici mostrando la sigaretta che hai già tra le dita.
«Oh, scusa. Questa la teniamo per dopo, allora» ti dice infilandoti la sigaretta tra le labbra.

Più tardi, mentre tu rileggi per circa tre ore la frase “e sulla scia della psicologia morale di Kohlberg”, lei gironzola per casa con le braccia conserte e un’espressione crucciata. Non si ferma un secondo e ogni volta che arrivi a “Kohlberg” non puoi fare a meno di alzare gli occhi dal libro e guardare che sta combinando. Al che lei si ferma e ti fa un bel sorriso. Poi riprende a camminare in tondo e tu ritorni al tuo libro, ripartendo da capo, in ciclo continuo.
Quando proprio ne hai abbastanza, ti alzi dal divano, prendi le chiavi della macchina e fai per uscire di casa. Lei ti saluta e dice «divertiti!», per nulla preoccupata che tu possa farlo davvero.
Una volta al bar, sei finalmente libero. Le persone ti parlano, muovono pezzi sulla scacchiera, fumano sigarette e ordinano da bere. Per un po’ ti senti sollevato e non è troppo difficile ignorare i suoi sms («torna presto», «se tornando passi in pizzeria ti preparo una bella cenetta», «non dimenticare la nicotina»).
La cosa irritante è che quando arrivi a casa diventa esageratamente apprensiva: ti annusa le dita e insinua «tu non hai fumato!», oppure ti chiede come mai il tuo alito non puzza di alcol, infine batte un piede sul pavimento e dice «mi ha telefonato la signora Bisani. Dice che oggi pomeriggio ti ha visto mentre stavi ridendo». Al che abbassi la testa e vai a sprofondarti nel divano.
Mentre lei prepara la cena, giochi un po’ a Pro Evolution, però subito lei ti rovina tutto il gusto facendoti notare mille imperfezioni del gioco:
«Ma non è così realistico come dicono. Guarda, va a scatti. Perché fai il doppiopasso anche per battere una rimessa dal fondo? Quello non somiglia a Schevchenko. E’ soltanto un videogioco».
Lasci cadere il joypad e ti alzi, avvilito.
«Vado a fumare una sigaretta» le dici.
«Bravo, così mi piaci!» ti dice lei.
Dopo cena esci di nuovo. Lei ti dà una banconota da cinquanta euro e ti dice:
«Mi raccomando: niente Screwdriver».
«Questa dove l’hai presa?» le chiedi osservando la banconota.
«Era in un portafogli che ho trovato nei pantaloni che indossi» ti dice lei.
Verso le due del mattino, quando rientri, lei non c’è più, ma con tutto quello che hai bevuto potresti anche aver sbagliato casa, quindi non fa differenza. Ti piazzi davanti al televisore e fumi la centesima sigaretta della giornata, che ormai ha un vago sapore di kerosene, succo d’arancia e sangue. Ti addormenti mentre una tizia, nel video, impiega ventotto minuti a capire come si slaccia un reggiseno. Sogni una festa di compleanno. Palloncini colorati, torta al cioccolato, tu che dai un pugno al tuo vecchio amico Carciofo.
Quando ti svegli, il mattino dopo, sembra che ti abbiano spolpato degli organi interni usando un badile e poi ti abbiano cacato nelle cavità corporee.
Il tuo primo pensiero è di finire quella deliziosa torta al cioccolato.

L’apice della tua giornata, prima che qualcuno ti punzecchi le palpebre con una sigaretta spenta.


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Il mio amico Gesù

Gesù è tornato. Sapeva che avevo bisogno di lui e non si è fatto aspettare, proprio come quando ero bambino. Ah, mi solleva tanto averlo qui, in questo momento. Per adesso non abbiamo ancora parlato del mio ateismo. So che sarà un problema non da poco e io sinceramente non sono disposto a ritrattare, voglio dire, è troppo viscerale la convinzione che siamo soltanto microscopici organismi a bordo di un sasso sospeso nel vuoto per nessun motivo. Troppo viscerale. E lui lo sa. Però mi sembra che ora sia più interessato a recuperare la nostra amicizia, a livello perlomeno affettivo.
È arrivato l’altro pomeriggio, mentre fumavo al cesso. Gli ho fatto un fischio e lui è venuto. Beh, gli ho spiegato la situazione, ovviamente. Lui mi ha ascoltato in silenzio. Sembrava anche perplesso, però poi mi ha detto «vediamo cosa si può fare». Tenete a mente che lui può tutto, ma non sempre ha voglia di farlo.
Quindi non è che io gli chiedo una bistecca ai ferri e lui tira fuori un cilindro e dal cilindro tira fuori un miracolo. Non funziona così. Non so come funzioni, a dire il vero, comunque lui fa tutti i suoi conti. Credo che debba sistemare ogni evento in relazione con gli altri. Ecco perché magari il tuo cane si prende la rogna e tu accendi una candela e chiedi a Gesù di farlo guarire e il tuo cane muore ugualmente. Sempre per quella storia del bene più grande. Però, se gli sei amico, fa il possibile. È un po’ come se chiedeste al tizio delle ferrovie che compila le tabelle con gli orari dei treni di farvi un favore, di far passare un treno dieci minuti dopo, così non perdete la coincidenza e tutto quanto.
Poi siamo andati al bar. Un altro dei nostri problemi è quel suo buonismo. Non che io non sia buono o che non mi piaccia il fatto che lui lo sia. Però esagera, è proprio una fissa. A volte sembra di leggere la posta di Topolino, se capite cosa intendo, cose come «ama il tuo prossimo», «perdonalo», «no, grazie, prendo solo un Crodino».
Io provo a spronarlo e gli dico «Ehi, dài, rilassati. Non fai male a nessuno se bevi un paio di bicchieri e ti fumi una sigaretta, no?». Ma lui dice che l’ultima volta che ha bevuto, poi ha sbagliato una moltiplicazione di pani e gli è venuto un panino periodico, «come quando ti si aprono tutte quelle finestre di Windows» mi ha detto. Insomma un casino. Allora ho lasciato che bevesse il suo analcolico.
Quindi abbiamo giocato a scacchi.
Giocare a scacchi con Gesù è come giocare con Fritz8, bendati, senza regina e con lo svantaggio del tratto. Frustrante, insomma. Poi lui si annoia perché prevede tutto quanto. Non solo nel senso che calcola tutte le possibili varianti in una frazione di secondo, ma nel senso che sa già tutte le tue mosse, precisamente, e le sue risposte, e chi vincerebbe se non entrasse in gioco il suo incrollabile buonismo, cioè lui. Al che entra in gioco il suo incrollabile buonismo e mi propone un pareggio. Sempre.
Prima mossa. Muovo pedone in e4. Gesù sorride.
«Bella mossa, bravo!» mi dice.
«Va beh, Gesù…».
«No, dico sul serio! Una mossa spettacolosa!» insiste.
«Scusa, te lo dico con il maggior tatto possibile: se lo fai con me va bene, ma se lo fai con uno che non ti conosce sembra che lo prendi per il… ehm… naso. La prima mossa non può essere bella, capisci? Può essere brutta, magari. Ma bella no» gli spiego.
«Scusa» dice, mortificato.
«Niente».
«Però a me piaceva, davvero. Mi piace questo gioco!» dice, tutto gioioso.
«Ok, ok. Va bene così. Tocca a te adesso».
Gesù muove pedone a5. Guardo la sua mossa volutamente ridicola, quindi guardo lui e sbuffo.
«Dài, per favore» gli dico.
«No, davvero, voglio fare questa».
«Così non c’è gusto».
«Ti senti preso in giro?» mi chiede, preoccupato.
«Ah ah… ma no. Ti conosco ormai» gli dico per tranquillizzarlo. «Dài, fai una mossa vera. Non c’è problema se mi batti, dico sul serio».
«Sei molto sportivo. Mi piace questo gioco».
«Ok. Piace anche a me. Dài».
Gesù ritira pedone a5 e comincia a pensare. Ogni tanto mugola e si gratta la testa, fingendo preoccupazione. Poi se ne esce con:
«Patta?».
«Ok. Basta» gli dico, alzandomi.
«Ti ho offeso? Scusa!» mi dice lui, allarmato.
«Vado a prendere da bere».
Quando torno, Gesù non c’è più. Faccio un giro del locale con i bicchieri in mano e poi lo trovo che lava i piedi a un tizio. E lì, bisogna ammetterlo, perdo un po’ il controllo.
«Ma che fai?!».
«Ama il prossimo tuo come te stesso».
«Sì, ma non per tutto il tempo! Non si può neanche fare un aperitivo in santa pace!» sbotto.
«Scusa se…» comincia a scusarsi Gesù. Ma io mi rivolgo al tizio che si sta facendo lavare i piedi.
«Anche tu, però. Che cazzo» gli dico.
«Ma me lo ha chiesto lui!» mi risponde il tizio, imbarazzato.
«Non litigate, vi prego» ci prega Gesù.
«Scusa, arriva uno sconosciuto, ti chiede di lavarti i piedi e tu accetti? Cos’è? Sei una specie di pervertito?» dico ancora al tizio, che non gradisce.
«Oh, bello, fatti i cazzi tuoi!» mi dice.
«No, no… non dite le parolacce…» si agità Gesù.
«Dai andiamo via» gli dico.
«Ma sì. Tienilo tutto per te lo sciroccato!» dice il tizio.
«Perché mi percuoti?» gli chiede Gesù.
«Non ti ha percosso. Vieni via» gli dico tirandolo per la tunica.
C’è poco da fare, è così: lui ha questa compassione infinita che gli crea un mucchio di problemi in società. E non serve ricordargli com’è andata l’ultima volta, l’uomo gli piace troppo, ne va pazzo.
«Domani andiamo a guarire qualche lebbroso?» mi chiede la sera, mentre gli rimbocco le coperte.
«Non ci sono più i lebbrosi» gli dico.
«In Africa ci sono».
«Non posso andare in Africa, domani».
«Possiamo andarci adesso!».
«Adesso devi dormire».
«Ma io non ho sonno».
«Ti verrà».
«No, dico: io non ho mai sonno».
«Non puoi guarirla da qui, la lebbra? E fare così per tutte le malattie del mondo?».
«Potrei».
«Ma?».
«Nessuno saprebbe che sono stato io».
«E perché devono sapere che sei stato tu? No, aspetta, non rispondere, lo so: marketing».
«Già».
«Ok. Senti, c’è un armadillo, qui allo zoo. Dicono che gli armadilli sono serbatoi naturali di lebbra. Potremmo cominciare da lì».
«Mi piacerebbe tanto».
«Allora affare fatto, domani ti porto allo zoo. Però adesso dormi».
«Va bene, grazie! Buonanotte, Mauro».

«Buonanotte, Gesù».


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E questo lo chiamiamo teologo

Visto che tra poco devo andare a cena e mi rimangono dieci minuti liberi, e visto che non mi piace sciupare il tempo, ho pensato che sarebbe stato gentile da parte mia usarli per dimostrare l’esistenza di Dio. Se dieci minuti vi sembrano pochi per un simile compito, vi basti leggere le cinque vie di San Tommaso d’Aquino, che confuterò di sfuggita, rimandando così la dimostrazione dell’esistenza di Dio alla prossima volta.

1. Ex motu

Tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Non si può procedere all’infinito e dunque bisogna arrivare a un primo motore che chiamiamo Dio.

Ma avremmo potuto chiamarlo Alberto.
I dubbi sul perché non si possa procedere all’infinito, poi, vengono dissipati dal seguente esempio:
Tommaso: «Tu sei un uomo buono, Guglielmo. Dico bene?».
Guglielmo: «Ti ringrazio».
Tommaso: «Ma tuo cugino Abelardo lo è più di te, giusto?».
Guglielmo: «Sì, è vero».
Tommaso: «E qualcun altro lo sarà più di lui».
Guglielmo: «Probabile».
Tommaso: «Ma non possiamo procedere all’infinito».
Guglielmo: «Ah, no?».
Tommaso: «Eh no, guarda, tra poco devo andare a prendere la bambina a scuola».
Gugliemo: «Ah, ok. Allora non possiamo».
Tommaso: «Magari la prossima volta».
Gugliemo: «Ma sì».
Tommaso: «Allora questo lo chiamiamo Dio».
Guglielmo: «Magistrale».

2. Ex causa

Ogni effetto ha bisogno di una causa. Ma procedere all’infinito equivale ad eliminare la prima causa efficiente. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio.

Cioè, è uguale. Ha sostituito alla parola motore la parola causa e poi basta. Ma questo è ciò che succede quando cerchi di applicare un metodo scientifico a una questione metafisica, che è come chiudere in un cassetto un coltello e una melanzana e aspettare che questa si peli da sola.
Ripeto anch’io, quindi, la medesima confutazione, sostituendo alla parola motore la parola causa e alla parola Dio la parola – uhm – carrucola.

3. Ex contingentia

Alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere o non essere. Ora è impossibile che cose di tal natura siano sempre state… [eccetera. E, indovina un po’?] non si può procedere all’infinito [voilà]. Dunque, bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario e questo tutti dicono Dio.

Ormai il metodo è chiaro e, pensandoci, non è affatto difficile dimostrare l’esistenza di Dio (potete provare anche a casa. Basta una penna, un foglio, un po’ di colla e un totale disprezzo per la logica), è sufficiente seguire lo schema tommasiano ovvietà + non si può procedere all’infinito + tutti lo chiamano Dio.
Esempio: prima del martedì c’è il lunedì e prima del lunedì c’è la domenica e prima della domenica il sabato, ma visto che non si può procedere all’infinito, Dio.
È facile.

4. Ex gradu

Ciò che è massimo in un dato genere è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo [Aristotele? Vercingetorige? Banana? Macché] Dio.

La quarta via fa tenerezza, quindi soprassiedo. Il lettore noterà la sparizione del non si può procedere all’infinito. Sembra che questo sia dipeso da un diverbio avuto con l’amico Guglielmo

Tommaso: «Dopo il 2 c’è il 3 e dopo il 3 c’è il 4».
Guglielmo: «Sì».
Tommaso: «E dopo il 4 c’è il 5. Ma non si può procedere all’infinito, quindi…».
Gugliemo: «Veramente sì».
Tommaso: «Come dici?».
Gugliemo: «Veramente sì può procedere all’infinito».
Tommaso: «No, non era previsto che avessi opinioni».
Guglielmo: «Beh. Comunque si può».
Tommaso: «Ma prima o poi tu muori, giusto?».
Guglielmo: «Ehm, sì».
Tommaso: «Ecco. E questo lo chiamiamo Dio».

5. Ex fine (speriamo)

Alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine. Ora, ciò che è privo d'intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo ed intelligente, come la freccia dell'arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente [prima o poi], dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest'essere chiamiamo Dio.

È facile dire che i corpi fisici operano per un fine, visto che i corpi fisici non ti possono rispondere. Tommaso applica quindi il principio del silenzio assenso agli oggetti inanimati, che è un po’ come se fosse andato da un sasso e gli avesse detto:
Tommaso: «Senti, sasso: operi per un fine?».
Sasso:
Tommaso: «Posso arguire da questo tuo silenzio che operi per un fine?».
Sasso:
Tommaso: «Lo prendo per un sì».
Sasso:
Tommaso: «Bene. Faccio ancora una prova con quell’albero e poi basta».

Tommaso, inoltre, fa l’esempio della freccia, confondendo il fine con la direzione. Io potrei prendere un arco e una freccia e tirarla a casaccio, no? Sarei causa del movimento della freccia, è vero, ma questo non direbbe nulla sulla mia natura (se non che ho un sacco di tempo libero). Io stesso, poi, sarei freccia scoccata, e così – potendo procedere all’infinito – all’infinito. Non è che quando sono stanco mi fermo e la prima cosa che vedo la chiamo Dio:

Tommaso: «Capisci che non si può procedere nelle cause all’infinito, no?».
Guglielmo: «Già».
Tommaso: «Per cui deve esserci un primo motore».
Guglielmo: «Mi pare proprio di sì, Tommaso».
(Entra un cane)
Tommaso: «E questo lo chiamiamo Dio».
Guglielmo: «Ah, ma che bello. Che razza è?».
Tommaso: «È un bassotto».
Cane: «Uof!».
Guglielmo: «Proprio bello. Beh, dicevi? Il primo motore…».

Tommaso: «Niente, avevo finito».

****************

Mail a Smeriglia


Oggetto: router wireless.

Se dico che funziona, smette di funzionare. Posso dire che, da quando l'ho installato, ha funzionato sia in casa sia nella mia stanza. Ho preso la macchina e il pc e sono andato in paese e funzionava ancora, ma non è la parte migliore, aspetta: ho continuato a navigare anche dopo aver spento il computer e persino quando mi sono addormentato. Ho pensato che fosse una cosa eccezionale e volevo scrivertela, ma prima volevo essere sicuro, e allora ho preso il router e l’ho rimesso nella sua scatola, l’ho riconsegnato al negoziante e in cambio ho preso un tostapane. Beh, non ci crederai: navigavo ancora. E non navigavo soltanto sul portatile ma anche sul cellulare e sul televisore, nel frigorifero e nel forno a microonde. Il router wireless ha una gittata pazzesca e si vede! Sono tornato al negozio per riprendermi il router e riconsegnare il tostapane, ma mi hanno detto che, una volta che hai comprato quel router, puoi usare come router direttamente il tostapane. Allora ho immaginato un mondo completamente wireless. Il commesso mi ha detto che un domani sarà tutto wireless: gli elettrodomestici, la telefonia fissa, l’elettrocardiogramma. Tutto. Stanno persino studiando i cavi wireless. Ma la tecnologia wireless non si fermerà qui. Il concetto è quello di razionalizzare lo strumento: se ora abbiamo il mouse wireless, domani avremo il mouse mouseless. Ci pensi? Eliminare non solo i fili ma direttamente l’oggetto. Niente più mouse, dunque. E niente più tastiera. Un giorno non ci saranno fili, tastiere o computer. Sarai lì, seduto a un tavolo (un giorno non ci saranno più tavoli, te lo prometto), immobile e fermo, navigando. Ma non è ancora tutto: alla fine, in preda al più totale entusiasmo, mi sono detto: forse posso anche volare, grazie al router wireless. Beh, non ci crederai, ma sto volando, proprio ora, mentre ti scrivo. È bellissimo. Costava solo 89 euro.


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Lepre in salmì

Prendete una lepre di piccole dimensioni e mettetela in una terrina con del vino rosso, del lauro, delle bacche di ginepro e lasciate marinare per due ore. Al vostro ritorno, seguite le tracce di vino sul pavimento e recuperate la lepre da sotto il divano. Rassicuratela, ditele che è stato tutto un tremendo malinteso e fatele scrivere le iniziali del nome sul colletto della pelliccia, per convincerla a rientrare nella terrina e per convincerla che ne uscirà viva, dopodiché prendete una chiave inglese e spappolate la lepre a randellate, aggiungete cipolla, sedano, carote e poi buttate tutto nel bidone della spazzatura.
Prendete dal frigorifero un’altra lepre e abbracciatela per qualche minuto, poi scuoiatela e incidete il ventre con un coltello e svuotatela del di dentro, togliete proprio tutto, visceri, organi interni e anche la pallina di carta che talvolta si annida sul fondo, quindi prendete una terza lepre e ripetete il procedimento, conservate però le interiora e usatele per riempire la lepre di prima. Questa terza lepre è invece libera di andarsene, perciò andate in giardino e posatela delicatamente a terra, lasciando che riprenda la sua vita selvatica. Tornate alla lepre ripiena, mettetela in forno a cinquanta gradi per un paio di settimane, poi non mi ricordo bene. Mangiate tutto molto rapidamente frantumando bene gli ossicini prima di inghiottirli.

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Mike Bongiorno

Ad esempio quando io morirò sarà un fatto abbastanza grave e l’unica consolazione che ho trovato sinora è che non mi dovrò anche seppellire. Per il resto sono abituato che accendo il televisore, metto sul telegiornale e lì assisto terrorizzato all’incessante elenco di catastrofi d’ogni tipo. No, non è vero, non sono terrorizzato. Mentre dei tizi senza scarpe con asciugamani arrotolati in testa sparano missili terra-aria in faccia ad altri tizi poveri disgraziati che poi piangono e digrignano i denti e risparano a loro volta, io me ne frego e taglio la mia bistecca, perché le cose gravi della televisione sbattono contro lo schermo e rimbalzano via per sempre.
Avevano detto che sarebbe arrivata la nuvola radioattiva assassina di Chernobyl e che ci avrebbe ammazzato tutti, per esempio, ma non è mai arrivata. Mi ricordo bene quando il telegiornale ha mostrato sulla cartina dell’Europa una specie di alone che avrebbe sorvolato la mia casa, come facevano sempre le nuvole, solo che fino a quel giorno tutte le nuvole erano venute dalla direzione opposta e non erano mai state lampeggianti e fucsia. Sono uscito di fuori a giocare a pallone e ho guardato il cielo e mi sono detto che, niente paura, quand’avessi visto l’alone lampeggiante fucsia sarei rientrato, proprio come con le nuvole. Nessuno mi ha mai spiegato né prima né dopo che l’alone fucsia era solo un artificio grafico del telegiornale per spiegare un fenomeno fondamentalmente invisibile, e adesso posso accendere la televisione senza telecomando.
Avevano detto che sarebbe arrivata la Sars dall’oriente. Neanche due giorni ed ero a letto con una severa difficoltà respiratoria acuta e due preoccupanti occhi a mandorla. Avevo la febbre. Avevo la tosse. Avevo la letargia (non se n’è mai più andata). Avevo la diarrea. Ho chiamato il medico sapendo già il responso e mi vedevo in quarantena, primo caso in Italia, spregevole untore della nazione tutta. Il medico mi ha detto che non avevo niente e che doveva andarsene perché aveva altri quindicimila casi di Sars da vedere, giù in paese.
Poi avevano detto che sarebbe arrivata l’aviaria. Mi ricordo bene la stima di 150.000-200.00 vittime, come se far ballare cinquantamila vittime avanti o indietro fosse roba da niente. Ora a qualcuno sembrerà una storia inventata, ma andate a controllare. 150.000-200.000 vittime. Non è più morto neanche il pollame.
Al massimo, alla fine, c’è una leggera sovrapposizione, questo sì, come quando tanti anni fa è piovuto per un mese filato, un mese filato di acqua battente incazzata nera, e un giorno è arrivata la voce che il fiume era uscito, che chi era di là rimaneva di là e chi era di qua, di qua.
Qui dove sono io il fiume divide noi emiliani dai lombardi. Quando esce il fiume, ogni volta che esce il fiume, l’acqua va giù dalla parte dei lombardi, solo dalla parte dei lombardi, almeno qui da noi. Jisus, mia madre, è lombarda di origine e Robespierre, mio padre, è emiliano, e noi figli siamo nati e viviamo nella parte emiliana e ci sentiamo emiliani, anche Jisus è costretta a suon di scudisciate a sentirsi emiliana e a dire che si sente emiliana e a cantare l’inno emiliano tutte le mattine sotto la bandiera, anche se io so che lei è rimasta lombarda dentro, che quando è sola telefona ai suoi parenti lombardi e parlano in lombardo stretto senza capirsi nemmeno tra di loro e tramano chissà quale complotto alle spalle del popolo emiliano.
Quella volta, come tutte le volte, noi emiliani siamo andati sul lato emiliano a vedere i lombardi sul lato lombardo inondato che lavoravano di bestemmie e di secchio, e io, mentre Ii guardavo, ho guardato anche Robespierre e ho guardato Jisus e ho detto che «l’acqua sa dove deve andare», solo questo, mentre loro non mi hanno guardato e non hanno detto niente.
Tornati a casa, accesa la televisione, la cosa grave del telegiornale era la stessa che avevamo visto noi poche ore prima, le stesse immagini, lo stesso ponte, la stessa gente, e il giorno dopo un parente lombardo di Jisus è arrivato a casa nostra alle tre del pomeriggio, tutto sporco di fango, ha buttato il suo giaccone bagnato sul tavolino del soggiorno, si è acceso una sigaretta e ha sibilato in dialetto lombardo un comprensibile vaffanculo.
Lì è stato il momento in cui lo schermo televisivo si è incrinato e ha lasciato passare di qua quello che era sempre stato di là. Non che io considerassi il problema del tizio lombardo un mio problema, è chiaro. Però mi ha fatto lo stesso effetto di vedere entrare in casa mia, senza preavviso, in smoking e tutto, Mike Bongiorno. Vederlo entrare e vederlo che si butta sul divano, si sgancia due bottoni e la pancera, si toglie la parrucca e sospira un vaffanculo.
Mike Bongiorno, cazzo. Chi l’avrebbe mai detto?


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Nove

Ho comprato questo tavolo perché quando l’ho visto ho pensato “Gesucristo... io devo avere quel tavolo!”, e così me lo sono preso e adesso è mio.
Ora: il tavolo è leggermente più grande del tavolo che la stanza in cui l’ho messo si poteva permettere di contenere, stiamo parlando di centimetri, diciamo trenta centimetri più grande, non è che tocchi le pareti o proprio non ci entri, no, il tavolo entra comodamente nella stanza, ci si può fare il giro attorno o sopra e sotto, però è giusto quei trenta centimetri più lungo della misura necessaria per non generare in tutte le persone che lo vedono la sensazione che sia fuori posto o l’impulso di sistemarlo o anche solo chiedermi se sono sicuro di volere mettere quel tavolo proprio a quel modo, non importa il modo.
Ad esempio un giorno entra la mia vicina, vede il tavolo e mi fa: «Bello qui. Ma che ne pensi di mettere quel tavolo in diagonale?».
«Mmm…» dico, poi ci penso su e, quando se ne va, lo metto in diagonale.
Qualche giorno dopo arriva un altro, vede il tavolo e mi fa: «Bel tavolo. Ma così sta male, perché non lo raddrizzi e lo avvicini alla parete?», così quando se ne va provo a raddrizzarlo e ad avvicinarlo alla parete, ma l’ospite successivo entra, vede il tavolo avvicinato alla parete, fa una smorfia e dice: «Ma perché quel tavolo…».
«Senti,» gli dico, «spostiamolo», e in due prendiamo il tavolo e lo mettiamo come dice lui, gli faccio fare tutte le prove che vuole finché non è soddisfatto, poi ci sediamo, beviamo una cosa e lui sembra finalmente a suo agio, dunque alla fine decido di fare così con tutti quelli che entrano e hanno qualcosa da dire sulla posizione del tavolo (cioè tutti quelli che entrano): in pratica faccio scegliere all’ospite la disposizione del tavolo che gli è più congeniale, passiamo del tempo insieme nel modo a lui più confortevole e poi, quando se ne va, rimetto il tavolo come piace a me.
Per adesso è la soluzione migliore, anche se un po’ noiosa.
Altre soluzioni possibili:

1. Ricomprare i mobili di questa stanza e ricreare nella stanza accanto una stanza identica a questa nella quale posso stare da solo come voglio senza sentirmi disapprovato dal Senso Estetico del Genere Umano (o dal Genere Umano sulla base del suo Senso Estetico), mentre la stanza-copia rimanente può invece essere modificata secondo i gusti dell’ospite di turno.

2. Mettere il tavolo nella posizione che piace a me, ma sottosopra. L’ospite entra e vede il tavolo ribaltato e dice: «Ma perché il tavolo è ribaltato?!», e io: «Oddio, non lo so! Aiutami a girarlo, presto!», dopodiché lo giriamo e alla fine l’ospite lo guarda rimesso a posto ma nella posizione che piace a me e dice: «Ah… così va molto meglio!», però è nella posizione che piace a me.

3. Chiamare tutte le persone che conosco, far vedere il tavolo e mettere ai voti la decisione su come posizionarlo. Indire periodicamente le votazioni, oppure stilare una classifica di preferenza in base alle votazioni e posizionare il tavolo a turno in ogni posizione, per un numero di giorni proporzionato al numero di voti che quella posizione ha raggiunto.

4. Come la soluzione numero 1, ma in bagno, girato giusto (cioè non come la soluzione numero 1, ma il principio è quello):
«Che ci fa il tavolo in bagno, cristodiddio?!».
«Perché, non ti piace? E dove lo metteresti?».
«Ma, non lo so! Di là!».
«Ah, ok. Aiutami, allora».

5. Tagliare la parte più lunga o farlo a pezzi con un martello da fabbro. La persona entra e dice: «Bello qui. Però quel tavolo io…» e crash, farlo a pezzi con il martello da fabbro.
«Ma che fai! Sei impazzito?!».
«Pensavo non ti piacesse il tavolo, l’ho fatto per te».

6. Toglierlo. La persona entra e dice «Ma non c’è il tavolo!», e tu: «No», e poi ti siedi per terra sorseggiando il tuo caffè e le dici: «Che fai, non ti siedi?», e morta lì.

7. Dire: «Hai ragione, ma purtroppo il tavolo è inchiodato al pavimento».
«E chi l’ha inchiodato?!».
«Ah boh non saprei».

8. La prima persona che entra e dice che il tavolo messo così le piace, la sposi, ci fai l'amore sopra il tavolo e poi vivete sotto il tavolo come fosse una canadese, abbracciati tutti e tre insieme.

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Se questo è un uomo

Ora di pranzo, oggi pranzo da solo.
Frugo nella dispensa in cerca della giusta combinazione di cibi, ma non trovo una sola scatoletta che faccia il paio con l’altra. Rimango attonito a rimirare i miei possibili pranzi, cercando il migliore dei pranzi possibili.
Fagioli più tonno.
Biscotti al mais più mais.
Conchigliette più After eight.
Mi rivolgo dunque al congelatore e scorgo una scatola di polpettine vegetali. Polpettine vegetali, sì. Un po’ come dire pancetta di soia e burro di salvia.
Nonostante sia contro la mia religione mangiare qualcosa che non contenga grassi e colesterolo cattivo, cedo alla fretta. Leggo sulla scatola il tempo di cottura: due minuti. Siccome non ritengo possibile che un qualsiasi elemento organico riesca a passare da uno stato surgelato a uno commestibile in soli due minuti, decido che deve essersi cancellato uno zero, così infilo le polpettine nel micro-onde e imposto a venti.
Passo poi alla preparazione dei fagioli, dimenticando di scolarli. Mentre una poltiglia biancastra ribolle in padella, le polpettine tendono verso un definitivo color fucsia.
Preparo la tavola: un brandello di scottex avanzato dal giorno prima, una bottiglia di plastica riempita con acqua del rubinetto (dicono che sia buona, l’acqua di Milano. Tuttavia sa di nasello e ha una consistenza vagamente oleosa. Per non parlare delle impurità, quel pulviscolo biancastro che vedi anche al buio), piatto e posate.
Oggi pranzo da solo e per sentirmi meno solo metto all’altro lato del tavolo il mio commensale, Rudolph, un peluche natalizio metà alce e metà renna che suona ininterrottamente Jingle bells a velocità doppia.
Ecco, i fagioli sfrigolano, sono pronti. Le polpettine anche, ma sono diventate una sola polpetta gigante verde.
Prima di cominciare chiamo il pronto intervento.
«Pronto intervento, dica».
«Via Roma 44».
«Motivo della chiamata?».
«Intossicazione alimentare».
«Cinque minuti e arriviamo. Quante persone?».
«Un maschio adulto e una renna di peluche».

Poso il ricevitore e comincio a mangiare. Al quarto fagiolo sento una fitta al basso ventre. Al terzo boccone di polpetta la renna di peluche si toglie il cappello e dice: «Fa un gran caldo, qui dentro, nevvero?». Bevo un sorso d’acqua e poi mi accascio al suolo.
Prima di perdere i sensi riesco a sentire la sirena dell’ambulanza, sempre più vicina.

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La signora Maccellow

Una mattina scendo dal letto e vado in bagno e passo in soggiorno e poi in cucina. Metto su il caffè, gli occhi ancora socchiusi. Ci penso un secondo. Esco dalla cucina e torno in salotto. E la vedo, non mi ero sbagliato.
La signora Maccellow è spuntata, non esiste espressione migliore. Spuntata. Flop. Come un fungo.
Così giro per casa e la vedo, in piedi che stira come niente fosse, indifferente alla montagna di calzini e mutande. La prima sensazione, anche per una coerente somiglianza, è che si tratti di mia madre. Un po’ più piccola, un po’ più appassita, con una diversa messa in piega. Mia madre e la sua ombra. Dopo ventisette anni che in casa tua ci siete solo tu e la tua famiglia, un mattino entri e trovi una perfetta sconosciuta. Che stira. Più tardi, chiedo spiegazioni a Jisus:
«Hai notato anche tu quella cosa?».
«Quale cosa?».
«Quella cosa che c’era stamattina, in soggiorno».
«Ma che cosa?».
«Ma sì, dài, quella cosa là, che stirava».
«La signora Marcella? Ci dà una mano».
«Abbiamo la donna delle pulizie?».
«Ci dà una mano» mi dice lei, severa.
«Oh be’,» le dico, «anche il benzinaio, sotto un certo punto di vista, mi dà una mano quando mi fa il pieno. Però poi vuole essere pagato. La signora Maccellow vuole essere pagata?».
Silenzio.
«Allora abbiamo la donna delle pulizie» concludo.
Siccome la donna delle pulizie in genere è una sottoposta, io non riesco a vederla come una persona vera e propria. E riverso su di lei la mia smania di onnipotenza.
Signora Maccellow, questa macchia sulla maglietta?
Signora Maccellow, è pronta la mia biancheria?
Signora Maccellow, mi prepara una tazza di cioccolata?
La signora Maccellow sopporta. Capo chino e sguardo di rivalsa, incassa. Ha una vocina flebile che sembra provenire da un’altra stanza, sempre un’altra stanza rispetto a quella in cui si trova. È piccola, un metro e trenta all’incirca, e io non lo faccio per cattiveria, è una questione puramente gerarchica. Jisus cerca di fare la spola.
«Senti, devi essere più gentile» mi dice.
«Con Maccellow?».
«Si chiama Marcella, smettila».
«Viene pagata».
«Sì, ma non è la nostra schiava».
«A cosa ti riferisci?» le chiedo con una perplessità quasi indignata.
Nel frattempo la signora Maccellow arriva, silenziosa, mi si accosta con prudenza. Nella mano tiene un vassoio, sul vassoio due cotton fioc.
«A questo» mi dice Jisus. Poi, rivolta alla signora Maccellow: «Signora Marcella, non deve farlo…».
La signora Maccellow guarda prima Jisus, poi me. Io le faccio un cenno con il capo, lei se la fila.
«Non capisco cosa intendi» dico a Jisus.

Con il passare dei giorni la signora Maccellow diventa sempre più indispensabile. Ovviamente non riesco a trattenermi dall’abusarne, la chiamo per ogni cosa, anche quando in effetti non mi serve nulla:
«Signora Maccellow?!» grido.
Lei arriva di corsa. Ansimando, reggendosi allo stipite della porta, «sì?» dice.
«Niente, si tenga sempre in zona» le dico senza neanche guardarla.
«Ero al piano di sopra, signorino Mauro. Mi ha fatto fare le scale per cosa?» mi chiede.
«Per niente. È che adoro sentire il ticchettio dei suoi piedini trafelati sul parquet, signora Maccellow» le dico.
E tutto fila via così e filerà via così fino al giorno in cui la signora Maccellow se ne andrà. So che deve succedere, e a dire il vero non sono sicuro di saper rinunciare tanto facilmente. Lei verrà a stirare le mutande un’ultima volta, me la vedo, poi prenderà la sua borsetta, il suo cappottino verde, stringerà la mano a Jisus, farà per andarsene e poi, proprio sulla soglia:
«Signora Maccellow?!» urlerò dal bagno.
«Cosa?!» urlerà lei di rimando.
«Ho finito!».
«Ma… sei impazzito?» griderà allora Jisus, scandalizzata. Poi, rivolgendosi a Maccellow: «Signora, deve scusarlo… sono così imbarazzata…».
«…».
«Signora Maccellow? Per favore! Un’ultima volta!» urlerò io.
«Sei diventato scemo?!» urlerà Jisus.
La signora Maccellow appoggerà il cappotto e la borsa, guarderà Jisus.
«Non lo faccia» le dirà lei.
La signora Maccellow s’incamminerà verso il bagno, armata di carta igienica.
«La prego…» la pregherà Jisus, ma la signora Maccellow sparirà nel bagno, inghiottita.

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Non c'è gioia nel mio pad

Ieri notte mi sono messo al computer, ho caricato Pro Evolution Soccer 4 e mi sono preparato a giocare qualche partita del mio campionato. Il primo scontro prevedeva una trasferta a Reggio Calabria contro la Reggina, poi una partita in casa con l’Udinese e un’altra trasferta a Genova con la Sampdoria.
Comincio con la Reggina, squadra che galleggia squallidamente a metà classifica.
Al 5’ minuto di gioco, quando ancora sono in fase di studio, i miei avversari segnano il gol dell’uno a zero. Dispiaciuto per questo svarione mi metto sotto e cerco di recuperare, ma niente, quelli sembrano più forti.
Un po’ troppo più forti, a dire il vero.
Non è solo per il fatto che l’arbitro non mi fischia mai un fallo a favore, che il loro portiere para anche le mosche, che i loro attaccanti arrivano sempre prima dei miei difensori, che tutti i rimpalli finiscono nei loro piedi, che se li sfioro svengono ed è sempre fallo, ammonizione e mai infortunio.
È più che altro il fastidio nel vedere il loro numero 10, tale Nakamura, che sembra una versione giapponese di Maradona.
Fastidio, sì, perché Pro Evolution Soccer è giapponese, e si vede che sono convinti che Nakamura sia un piccolo fenomeno che un giorno porterà la Reggina allo scudetto (quando in realtà è un cesso orrendo neanche buono per farci il brasato).
Così esco dal gioco e ricomincio.
Seguono dieci tentativi, che illustro nel dettaglio:

Reggina-Me 1-0

Attacco per tutta la partita, colpisco un palo (a porta vuota) e non mi danno tre rigori netti. All’85’ Nakamura lancia Borriello, che scarta tre volte lo stesso difensore e segna.

Reggina-Me 1-0

Attacco per tutta la partita, colpisco due traverse, mi danno un rigore ma il mio miglior attaccante tira inspiegabilmente alto. Al 70’ Nakamura segna di testa da fuori area.

Reggina-Me (sospesa)

Interrotta al 7’ per gol della Reggina su assist di Nakamura.

Reggina-Me (sospesa)

Interrotta al 23’ quando, dopo sette nitide palle gol per me tutte sventate da salvataggi in extremis di stinchi, braccia, schiene, teste, mani, orecchie di giocatori della Reggina, Nakamura prende palla sulla fascia, attraversa tre miei difensori come fossero pixel, tira, colpisce la traversa e il pallone s’insacca dopo aver rimbalzato sulla nuca del mio portiere.

Reggina-Me 2-2

Decido di mandare Nakamura all’ospedale.
Gli do la caccia sin dal primo minuto, e dopo nove interventi kamikaze sulle ginocchia, che mi costano altrettante ammonizioni e un gol su punizione dal limite (segna Nakamura), finalmente gli spezzo un femore. Godo nel vederlo uscire in lacrime e mi preparo alla rimonta che si realizza con un gol al 38’ (sei conclusioni consecutive prima di vedere la palla entrare) e uno al 59’ (segno involontariamente premendo il tasto Cross Lungo invece di Tiro). Tuttavia la Reggina pareggia al 90’ dopo che il pallone è rimasto nella mia area per più di due minuti, inspiegabilmente, senza che i miei difensori riuscissero a calciarlo lontano, neanche per errore.

Reggina-Me (sospesa)

Interrotta dopo otto secondi per gol di Nakamura.

Reggina-Me 0-0

Ancora un brutto infortunio per Nakamura.
Per sicurezza rendo invalidi altri tre giocatori della Reggina che, non avendo più sostituzioni, è costretta a tenere in campo l’ultimo infortunato, Franceschini, il quale si muove a passo di lumaca e fa quasi tenerezza (durante la partita verrà più volte sbeffeggiato con doppi-passi e tunnel).
Attacco per 90 minuti senza interruzione. Sbaglio un rigore (il mio miglior attaccante tira curiosamente alto) e non me ne fischiano altri sei. Colpisco quattro pali e due traverse. Mi annullano due gol per fuorigioco, senza però farmi vedere il classico replay dimostrativo (vado nel menù opzioni e provo a forzare il replay manualmente, ma mi viene proposto un replay di Nakamura che segna su punizione, cinque partite prima).
A tempo scaduto riesco non so come a scartare un difensore nipponico (ormai la sfida è Me-Konami) vedo il portiere in uscita sul radar e provo il pallonetto dal limite dell’aera. Il pallone supera il portiere, rotola verso la porta, io alzo un braccio al cielo.
Poi un giocatore zoppicante salva sulla linea.
Franceschini, si chiama.

Reggina-Me (sospesa)

Al buio, con i flash colorati dello schermo che mi lampeggiano in volto, osservo i giocatori della Reggina mentre segnano una manciata di gol. Non oppongo la minima resistenza, dal momento che ho lasciato cadere il joy-pad (ma non c’è gioia nel mio pad) penzoloni, e la bocca mi si è leggermente aperta, catatonica.
Prima di interrompere vedo Nakamura che circumnaviga quattro volte il mio portiere paralizzato, poi si alza la palla e segna il 6 a 0 in rovesciata.

Reggina-Me 1-1

Vado in bagno a fare pipì e quando torno sono un altro uomo: è solo un computer, mi dico. È solo un gioco. È solo la Reggina. Se mi impegno, se mi concentro e se ce la metto tutta, posso vincere in goleada.
Così determinato e carico comincio la partita, che risulterà essere la migliore da quando esisto. La Reggina non passa la metà-campo, io gioco con razionalità, senza scoprirmi e costruendo le mie azioni ad arte. Passo in vantaggio con una splendida azione corale, conclusa dal mio pupillo in controbalzo. Poi cerco di segnare il raddoppio, ma impedendo agli avversari qualsiasi reazione.
Al 92’ Nakamura scarta otto miei giocatori, e segna.

Reggina-Me 0-18

Abbasso il livello del computer al minimo.
Segno diciotto gol nel primo tempo. Poi trascorro la seconda frazione a dar la caccia a Nakamura, Borriello e Franceschini. Li mando tutti e tre al pronto soccorso.
Dal 65’ al 90’ faccio torello nella mia metà campo.
Quando l’arbitro fischia la fine faccio la ola sulla sedia, e vado a letto.

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Hoc est sim sala bim

Nel XVI secolo i riformatori della religione cristiana non riuscivano a trovare un’interpretazione soddisfacente per tutti della frase pronunciata da Gesù durante l’ultima cena «questo è il mio corpo» mentre porgeva un pezzo di pane agli apostoli.
Molti protestanti, in particolare, non ritenevano possibile che pane e vino si tramutassero in corpo e sangue di Cristo, pur mantenendo l’aspetto di pane e vino (in effetti, non avevano tutti i torti. Ma secondo il teologo polacco Andry Kustowski, Gesù era un tipo molto spiritoso e faceva spesso giochetti di questo genere, soprattutto quando veniva fermato dalle guardie romane e trovato in possesso di stupefacenti).
Andreas Karlstadt tentò una soluzione incentrandosi sul termine questo. Egli sosteneva che Gesù non stesse riferendosi al pane che teneva in mano bensì al proprio corpo.
Martino di Lofenbach trovò molto interessante questa soluzione del problema, condivise l’idea che Gesù non si riferisse al pane ma, sottolineò, nemmeno al proprio corpo. Propendeva invece più per del rosmarino che stava lì sul tavolo, vicino all’apostolo Paolo (fondò dunque un nuovo ordine, i Rosmariti, imponendo loro di mangiare soltanto rosmarino per tutta la vita. Venne fatto allo spiedo nel 1523).
Zwingli si concentrò invece sulla parola è, sostenendo che in realtà Gesù volesse dire significa. Riccardo Bruegel propose invece di sostituire alla parola corpo la parola pane, ma Zwingli obiettò che in questo modo Gesù avrebbe detto «questo è il mio pane», porgendo un pezzo di pane, e ciò lo faceva sembrare un deficiente, per non parlare dell’incalcolabile perdita mistica ed economica a danno della chiesa. Tommaso Lampar propose allora di sostituire alla parola corpo la parola deltaplano, ma venne bruciato.
Si scatenò quindi un putiferio quando Giovanni da Modena sostenne che la parola più importante della frase di Gesù era mio. Questo configurava l’eucarestia come il peggior atto sacrilego della storia umana. Giovanni stava per essere portato al rogo, ma venne salvato dal solito Zwingli, il quale disse che «in realtà Gesù intendeva dire vostro, quando diceva mio».
La folla inferocita si placò, ma cominciò a guardare Zwingli con sospetto. La prova arrivò nel 1527, quando Zwingli cercò di convincere il vescovo di Colonia che, in realtà, con la parola corpo Gesù intendeva dire non corpo ma Zwingli. La frase completa del teologo era dunque «questo è il vostro Zwingli».
Poco prima che una folla accigliata lo linciasse sulla soglia di casa, l’attenzione dell’intera Europa si concentrò sulla formidabile scoperta di un monaco irlandese, Agilulfo da Chieti, il quale trovò una versione alternativa del passo evangelico dove Gesù porgeva agli apostoli un pezzo di carne, invece di un pezzo di pane e nella quale la frase esatta pronunciata dal Cristo suonava all’incirca «questo è il mio porco».
La Chiesa di Roma, dopo aver vagliato brevemente l’ipotesi di celebrare la messa con una costoletta di maiale, ritenne più semplice bruciare Agilulfo.

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Liquefazione di un passerotto cristalloide

Procedevo a una velocità di 14 chilometri orari sulla mia cyclette, quando il telefono comincia a suonare. Colo giù dalla sella come sciroppo, sgocciolando fino al ricevitore.
«Pronto?» chiedo, ma era solo il fruscio digitale della linea internet.
Questo inconveniente mi fa domandare se non abbia per caso bisogno del condizionatore portatile e la risposta è che sì, ce li ho, sia il bisogno che l’altro.
Chiamo allora la mia segretaria perché divincoli da un anfratto sul pianerottolo il malridotto baracchino, intimandole gentilmente di pulirlo e disinfettarlo sino a quando anche il più piccolo sacchetto di patatine sia scomparso dalla griglia di aerazione, o almeno ben spinto all’interno dell’elettrodomestico, lontano dal mio occhio e quindi dal mondo fenomenico.
Viene quindi il momento dell’installazione: essendo il manuale troppo complicato (dieci pagine di schemi elettrici in tedesco), mi affido al mio proverbiale intuito. Poi chiamo la mia segretaria e le faccio rimettere tutto a posto (non sapendo dove agganciare il compressore, mi era sembrato logico lasciarlo sul pavimento, nascosto da fogli di giornale).
Finalmente riesco ad accenderlo, posizionando la manopola della temperatura sulla scritta Plutone!
Dopo cinque minuti, preoccupato da neoformazioni stalattitiche che fuoriescono dalle cavità del mio cranio e da una fastidiosa patina cristalloide lì a congiungermi le palpebre, abbasso un poco le mie pretese di frescura, ottenendo il clima ideale.
Per i seguenti due giorni mi rifiuto di uscire dalla stanza, vedendo in cortile alcuni passerotti liquefarsi e osservando che il mio cane sta macerandosi il muso nel tentativo di attraversare la griglia di un condotto, nella speranza forse di percorrere chilometri claustrofobici alla ricerca di un liquido.
Già penso di restare lì fino all’autunno, quando all’alba del terzo giorno il condizionatore comincia a produrre un rumore inquietante molto simile a quello di un condizionatore che si rompe. Si accende una spia rossa e l’apparecchio prende a sbuffare aria calda.
Cerco allora di interpretare il simbolo luminoso, che mi si configura come un fulmine inscritto in un teschio inscritto in un carro funebre inscritto in un cadavere. Sperando non sia niente di grave, consulto un manuale in rete, che riporta la dicitura seguente:

In caso di accensione del simbolo guasto letale irreparabile, spegnere immediatamente il condizionatore, staccare la spina, avvolgere il macchinario in un sacco impermeabile e fuggire.

Considerando esagerate simili disposizioni catastrofiche, mi risolvo per una soluzione di prepotenza, pensando che in certi casi è sufficiente ignorare il problema perché il problema scompaia (una volta avevo un forte dolore alla testa. Invece di andare stupidamente dal medico ho stretto denti, aspettando. Dopo sole cinque settimane il dolore è scomparso e ritengo si possa considerare accidentale il fatto che ora non ci sento più dall’orecchio sinistro).
Purtroppo un condizionatore è ben più complicato del cervello umano: attualmente al posto di aria fresca vengono emesse nebulose verdastre, che si congiungono in fantasiose volute maleodoranti che mi ricordano tanto l’orso Yoghi. In meno di un’ora sono diventato completamente glabro e ho un principio di lebbra sul volto. So che la vita mi sta abbandonando, ma ciononostante rimango dove sono e sorrido, perché a dispetto del caldo infernale, ho finalmente freddo.