L'anziano passeggero (1432)

Una mattina mi ritrovo a fare un breve viaggio con il mio anziano padre, evento ormai piuttosto raro.
Dobbiamo fare un'ora e mezza insieme sulla sua anziana automobile, e questo perché la mia si è piantata a quasi duecento chilometri da casa, l'ho dovuta abbandonare sul posto e adesso è in attesa del recupero in un’autofficina nella campagna piemontese.
L'anziano padre arriva puntuale sotto casa mia alle otto del mattino, mi dà le chiavi e si mette sul sedile del passeggero. Indossa grandi occhiali da sole e mastica una caramella – o almeno spero – e guarda dritto oltre il parabrezza, già pronto ad avvistare ogni possibile pericolo.
Un osservatore ingenuo potrebbe pensare che la consegna delle chiavi e il fatto che io manovri i comandi dell'anziana automobile facciano di me l’unico guidatore. In realtà l'anziano padre non sa rinunciare a dirigere le operazioni, esattamente come quando, trent'anni fa, mi dava le prime lezioni di guida nel grande spiazzo deserto dietro la Coop di San Paco Llorente.
Non amo chi, mentre guido, si fa prendere dall’ansia e mi dice cosa fare o non fare (cioè quello che faccio io quando guida un altro), tipo la mia amica Paola che ogni tanto mi chiede: «Ma non siamo troppo vicini al ciglio della strada?» (le rispondo: «Se ti fa sentire più sicura mi sposto in modo che tu sia esattamente all’altezza della linea di mezzeria»), ma nel caso di questo particolare viaggio accetto la cosa senza protestare, sia perché amo ancora meno discutere, sia perché in fondo lo ritengo il prezzo da pagare per avere un comodo passaggio all'autofficina in questione.
«Freccia» mi fa quando sto per partire.
«Freccia inserita, comandante» gli dico.
«Flap?».
«Flap flappati comandante».
«Hai guardato nello specchietto?».
Qui potrei dirgli: “Sì, comandante, ho guardato circa dieci secondi fa, dice che ora posso immettermi in tutta sicurezza? Intendo: basta guardare una volta e poi non ci si pensa più fino all’arrivo o si guida guardando costantemente nello specchietto?”, ma decido che è troppo presto per il sarcasmo, aspettiamo almeno di essere in autostrada.
Nel breve tratto per arrivarci, l'anziano padre dà sfogo alle proprie inclinazioni: l'esagerata percezione del pericolo quando non è lui al volante; la fissa per gli autovelox e le telecamere. La prima deriva da una mancanza di fiducia nel prossimo e in particolare nel sottoscritto, nonostante i miei quattordici titoli mondiali vinti a Grand Prix 2, 3 e 4. Il fatto è che io sono il figlio, lui il padre, e questo non si cambia: con il passare del tempo lui diventa sempre più saggio, io resto sempre meno saggio, per quanto anch’io, questo forse può concederlo, un po’ più saggio o, più probabilmente, un po’ meno non-saggio.
La fissa degli autovelox deriva invece dal fatto che l’anziano padre li percepisce come trappole ingannevoli che, al di là della multa, lo farebbero sentire un gonzo, cosa che teme più di un cappottamento. Si vanta infatti di non aver mai preso una multa in vita sua, anche se una volta a dire il vero l’ha presa, ma lui sostiene che quella non conta perché l’autovelox non era segnalato da apposita cartellonistica e poi era nascosto da un veicolo parcheggiato (probabilmente dalle forze dell’ordine, di proposito) e dalle foglie di un albero e di sicuro era tarato male perché lui andava a 50 precisi, se lo ricorda perfettamente.
«Va’ piano, che lì si mettono spesso i vigili» mi dice indicando uno spiazzo vuoto.
«Dici che stanno dentro il cassonetto?» chiedo. Lui non raccoglie.
«Attento alle telecamere» mi dice più avanti, anche se siamo su un tratto di strada deserta in mezzo al niente, senza neanche un albero o un palo della luce. Immagino due militari in mimetica, coperti da rametti e fogliame, acquattati dietro un cespuglio che ci scrutano attraverso binocoli laser. Uno dice: «Anziana automobile in arrivo, signore». E l’altro: «Bene. Pronto a rilevare la velocità, sergente. Questa volta non ci sfugge».
Se poi per sbaglio faccio una rotonda a una velocità appena sopra la sua attuale percezione del pericolo, mi dice: «Ehi, Schumacher».
«Ma sono a 38 all’ora» rispondo.
Lui scuote la testa e dice: «Non siamo al Nürburgring».
Una volta in autostrada, mi informa dello stato del veicolo. Dice che le gomme sono lisce, i freni non frenano, gli ammortizzatori piangono e il motore è quasi andato. Dice che, se supero i novanta orari, rischiamo di restare a piedi o forse l’anziana automobile potrebbe esplodere, praticamente come Speed ma al contrario, e con l’anziano padre al posto di Sandra Bullock.
Gli faccio notare che questa informazione poteva avere una maggiore utilità prima della partenza. Lui dice solo: «Rallenta». Io dico: «Sono a novanta precisi». Lui dice: «Troppo».
Così però sembra di andare davvero pianissimo, ma in fondo mi dico che si tratta solo di poco più di un'ora, poi riavrò la mia macchina e, con essa, la libertà. Mentre tagliamo i campi della pianura, ogni tanto indica nel paesaggio dei punti autobiografici: «Quel lavoro lì l'ho fatto io» dice indicando un capannone. «In quello stabilimento ci ha lavorato tuo nonno per un mese». «Quel cartello lì è nuovo». «Qui non è cambiato niente». «Qui invece sì». «Lì ci abbiamo mangiato le rane».
Quando arriviamo all’altezza di Voghera, sbuffa e dice: «Ma siamo solo a Voghera?».
«Mi hai chiesto di andare a 90 all'ora…» dico.
Non ribatte, ma è implicito che lui, pur procedendo alla stessa velocità, a Voghera ci sarebbe arrivato prima.
Nel frattempo ci sorpassano tutti, anche gli uccellini. Quando sfreccia una macchina particolarmente veloce che procede in modo vagamente spericolato, l'anziano padre scuote la testa e dice: «Candidato all'obitorio».
Immagino che a lui stia bene guardare il paesaggio fino all’arrivo, ma io raramente sto zitto, perciò provo a far partire una qualche conversazione articolata. Gli parlo di libri, di film, di sport, di esseri umani. Evito attualità e religione, per non farlo agitare. L'anziano padre ascolta tutto. Se parlassi per tre ore, ascolterebbe per tre ore, e il dubbio è che stia in realtà pensando ai fatti propri. Se gli chiedo: «Che ne pensi?», risponde: «È la vita».
Quando usciamo dall'autostrada, si trova in un territorio a lui sconosciuto, perciò “lì c’è una telecamera” diventa “lì potrebbe esserci una telecamera”. Troviamo anche un limite di 30 all’ora causa lavori. Lui fa per aprire bocca e io dico: «No».
Arriviamo finalmente all'autofficina, più vecchi (saggi?) ma vivi. Lo saluto e lo ringrazio. Lui si rimette al posto di guida e mi fa un cenno col capo come a dire: dovere.
Entro, recupero la macchina, esco.
L'anziano padre è ancora lì ad aspettarmi. Accosto, abbasso il finestrino e gli dico: «Seguimi fino all'autostrada, poi però io non vado a 90, eh?».
Lui sorride e dice: «Tranquillo».
Così partiamo, io davanti e lui dietro. Arriviamo al casello, entriamo, io mi porto subito sui 130 e lo distanzio.
Dopo un po' mi chiama l'anziana madre per avere aggiornamenti, visto che l'anziano padre non usa i cellulari quando guida, e anche quando non guida.
«Tuo padre?» mi fa.
«Eh,» le dico, «io non vado a 90, quindi sarà un po' indietro».
«Ma sì,» mi fa lei, «lui pianino pianino torna, non ha problemi».
«Ma no, infatti,» dico, «non è mica rimbambito».
«Forse…» dice l’anziana madre, e ridiamo.
«Dai, tranquilla, per cena magari arriva». Ridiamo ancora.
La saluto e procedo.
Dopo un altro pezzo di strada, mentre vado a 130, all’improvviso scorgo nel retrovisore un missile nero arrivare dalla lunga e poi sverniciarmi come un lampo a sinistra, scuotendomi tutto per lo spostamento d’aria: nella frazione di secondo del suo passaggio, riconosco l’anziana automobile e, dentro, l’anziano padre che mastica la sua caramella, poi diventa un puntino sempre più lontano, fino a scomparire dalla mia vista.

24.6.25

Il petomane (1431)

Anni fa vivevo in un appartamento con una ragazza, Samantha. L'appartamento stava sopra quello di Gervaso, un tizio con cui non andavamo oltre il “ciao”. A un certo punto, una sera, sentiamo provenire dall'appartamento di Gervaso l'inequivocabile rumore di una poderosa scoreggia. Io e Samantha ci guardiamo un attimo e poi inevitabilmente scoppiamo a ridere. Nei giorni successivi, stessa cosa: ogni tanto il silenzio viene squarciato da queste deflagrazioni, e io e Samantha sempre giù a ridere e a dire, sottovoce tra noi, «Ma Gervaso! Mangiati un po' di carbone vegetale! Mangia un po' meno fagioli!», e poi raccontiamo a tutti del nostro vicino petomane. Gervaso scoreggiava sempre: d'estate come d'inverno, feriali e festivi, notte e giorno. Passati i mesi, neanche ci facevamo più caso, Gervaso sparava una delle sue bombe e noi, senza alzare lo sguardo dal libro o da quello che stavamo facendo, dicevamo solo: «Salute». O anche: «Buongiorno». O anche: «Viene a piovere». Finché ci trasferiamo (non per Gervaso). Mentre stiamo caricando gli scatoloni in macchina, Gervaso passa di lì e decide di salutarci, così ci fermiamo a fare due chiacchiere per la prima volta. Ci racconta un po' di sé, è una persona garbata e noi ci aspettiamo che da un momento all'altro dica: "Scusate per le flatulenze, ma soffro di una grave forma di aerofagia scoppiettante", magari mettendosi poi una mano sulla pancia e tirando un'ultima fragorosa scoreggia di commiato. Invece Gervaso fa un'altra cosa. Mette una mano in tasca, sfila un gran fazzolettone, lo porta al naso e soffia con forza, producendo la ben nota spernacchiata. Quindi ripiega con cura il fazzoletto, lo rimette in tasca, ci guarda e dice: «Allergia».

20.6.25

Tutto quello che vuoi da un cardiologo (1430)

Vado a fare una visita dal cardiologo, un tipo molto autorevole, molto coscienzioso, molto preciso. Più o meno tutto quello che vuoi da un cardiologo. Mi fa l'elettrocardiogramma, tutto bene (sono ipocondriaco). Torniamo alla scrivania e mentre compila le scartoffie dice "Nessuna patologia cardiaca". Io allora sorrido e gli dico: «Sa, Woody Allen in quel film diceva "Le parole più belle del mondo non sono 'ti amo' ma 'è benigno'"». Il cardiologo smette di scrivere, mi guarda serio e poi mi fa: «Questa la riciclo».

17.6.25

Parigi (1429)

Venerdì mattina, mentre cammino per la via principale di San Paco, incontro Luisa, della profumeria Luisa. È lì, sulla soglia del negozio, che parla con una certa Gianna. Luisa mi vede, mi ferma e dice: «Ecco, lui secondo me lo capisce». Io penso: "Bello. Mi piacciono le cose che capisco. Sentiamo".
Così mi fermo e Luisa mi racconta una breve storia: un ragazzo di San Paco deve sposarsi con una ragazza di Parigi. La ragazza di Parigi viene a San Paco per il matrimonio. La ragazza di Parigi ha un gatto. La ragazza di Parigi lascia il gatto a Parigi, sotto la tutela di un esperto cat sitter. Dopo un paio di giorni l'esperto cat sitter chiama la ragazza di Parigi e le dice: «Forse non ero così esperto, il gatto è scomparso». Qui trasalisco. Luisa sorride, guarda Gianna.
«Vedi?» le dice.
Capisco di aver capito.
«Tu cos'avresti fatto?» mi chiede Luisa.
Amo le domande. Farle e riceverle.
«Sarei immediatamente volato a Parigi alla ricerca del mio gatto» dico prima che Luisa finisca di dire la parola "cos".
Gianna scuote la testa. Io e Luisa ridiamo. Gianna non ci trova niente da ridere.
«È solo un gatto» dice.
Sei solo un essere umano, vorrei dirle, ma non raccolgo la provocazione, come del resto indicato a pagina quarantadue del mio manuale Come evitare le pozzanghere e vivere felice. Che cos’è una pozzanghera? Tutto, potenzialmente. Un altro titolo potrebbe essere, infatti: L’arte di riconoscere le pozzanghere.
«E l'ha trovato, il gatto?» chiedo a Luisa.
«Sì» dice Luisa. Ci abbracciamo e danziamo.
Gianna dice: «La vera domanda – pozzanghera!, penso, notando quel “vera”– è: torna per il matrimonio?».
A questo non avevo pensato. Mi sembra un problema secondario. Chi se ne frega, penso. Se due non si sposano, nessuno muore. Se scompare il gatto, potrebbe morire il gatto, potrebbe morire la padrona del gatto, è una faccenda completamente diversa. Allargo le braccia e dico: «Tra pochi giorni lo sapremo».
Gianna allora se ne va. Insoddisfatta, incompresa, sempre scuotendo la testa. Per poco non la mette sotto un’automobile. Il guidatore, un gatto certosino, si sporge e le dice: «Ci svegliamo?». Gianna gli fa un gesto con la mano come a dire: “Va’ al diavolo!”. Il gatto certosino alza un sopracciglio e riparte borbottando.
Io e Luisa osserviamo la scena. Anche noi scuotiamo – ma benevolmente – la testa, come a dire: quando impareranno, questi umani? Sorridiamo pensando: che importa? Il gatto è stato ritrovato.
Saluto Luisa, riprendo la strada e vedo nitidamente la scena: la ragazza di Parigi e il gatto, in terrazzo, seduti ciascuno su una sdraio, che guardano Parigi al tramonto bevendo champagne.
«Ottimo lavoro, Michel» dice la ragazza di Parigi.
«Grazie» dice il gatto Michel, che poi chiede: «Cosa prevede il piano, adesso?».
«Il piano?» dice la ragazza di Parigi. «Semplice: tu, io, Parigi».
Il gatto Michel prende il calice di champagne dal tavolino, ne beve un sorso e poi dice: «Perfetto».

14.6.25

1428.

Magnus Carlsen, il più forte giocatore di scacchi di tutti i nostri tempi (e forse anche degli altri), ha detto di recente che la Formula 1 è lo sport più noioso del mondo. Credevo fosse una gag, ma a quanto pare era serio. Sul nuovo numero di Wu magazine, qui, do alcuni suggerimenti per rendere la Formula 1 meno noiosa da guardare. Per la noiosità degli scacchi, invece, trovare un rimedio non è possibile.

10.6.25

Tu lo sai (1427)

Sono in treno. Una signora bionda sale con un’amica a Fidenza. Parla mentre si siedono accanto a me. Parla mentre il treno riparte. Parla da Fidenza a Parma. Parla da Parma a Reggio. Parla da Reggio a Modena. Parla da Modena a Bologna. Prima che io scenda, la signora bionda riceve un messaggio sul cellulare, legge, scrive, poi mostra il cellulare all'amica e le chiede: «Ho risposto solo con "È stato un piacere", va bene?». L'amica, che fino a lì ha detto nove parole, risponde: «A volte la cosa migliore è essere succinti». «Ah, ma tu lo sai,» le dice la signora bionda, «io sono succinta», quindi rimette il cellulare nella borsa, fa un sospiro e, mentre scendo dal treno, ricomincia a parlare.

9.6.25

La parete ovest (1426)

Ieri sera, quando ho chiuso le imposte della cucina prima di andare a dormire, ho visto che sulla zanzariera c'era uno scarafaggio enorme. Ogni tanto, d'estate, ne trovo uno in casa o, per l'appunto, nei pressi di una finestra, che cerca di entrare in casa. Si arrampicano sui muri del condominio, si infilano nelle guide delle zanzariere e, poco alla volta, pazientemente, trovano il momento giusto per entrare. Una volta dentro trovano anche Gâteau, che a zampettate me li consegna tramortiti. O forse è il veleno che qualcuno sparge nel cortile. O forse si drogano. Scarafaggi tossicodipendenti che si intrufolano nelle case in cerca di monili. Tenendo chiusa un'anta della finestra, per evitare che mi cadesse in faccia, ho fatto alzare di scatto la zanzariera, tipo ghigliottina. Poi sono andato a letto, sereno. La notte, però, ho sognato esattamente la stessa scena, io che vado a chiudere le imposte della cucina prima di andare a dormire, vedo lo scarafaggio, alzo di scatto la zanzariera, poi l'abbasso di nuovo e vedo lo scarafaggio morto, tutto schiacciato. "Addio, scarafaggio!" penso nel sogno, e poi penso che devo chiamare lo zanzarierista, mi serve una zanzariera nuova. Quindi vado a dormire, nel sogno, ma mi sveglio nella realtà. Forse quando vai a dormire nella realtà entri nel sogno e quando vai a dormire nel sogno entri nella realtà. Che cosa è reale? Che cosa è normale? È nato prima lo scarafaggio o la gallina? Comunque. Mi sveglio e percepisco che Gâteau non è sul letto, nella classica posizione notturna di acciambellamento. Accendo la luce e vedo che sta bisticciando con qualcosa in un angolino di fianco all'armadio. So già di che si tratta. Mi alzo, l'allontano, vedo un piccolo scarafaggio. Schiaccio lo scarafaggio con una copia della Metamorfosi, ne raccolgo i resti con un pezzetto di carta igienica, li butto nel cesso – si restituiscono sempre ai loro cari i corpi delle vittime, in una guerra –, disinfetto il punto in cui è avvenuta l'uccisione, mi lavo le mani e finalmente torno a letto. Gâteau è già lì, acciambellata, pronta a entrare nel mondo del sogno. Che cosa sognano i gatti?, ho letto una volta da qualche parte. Topi. Le do un bacio sulla testolina e le dico: «Ottimo lavoro, grazie». Gâteau mi protegge mentre dormo. O almeno spero. Torno a dormire e penso: "Era solo un brutto sogno, quello dello scarafaggio enorme sulla zanzariera, meno male!". La mattina mi sveglio. Controllo: non sono diventato uno scarafaggio. Anche Gâteau è ancora una gatta. Tutto bene, dunque. Però penso: "Aspetta, non era un sogno!". Lo scarafaggio enorme, dico. Mi alzo, vado in cucina, apro la finestra ma riparandomi sempre con un'anta, abbasso la zanzariera: nessuno scarafaggio. Né vivo, né morto, né maciullato. Unico indizio: una zampetta nera sul davanzale. Me lo immagino, tornato a casa, senza una zampa, una benda attorno alla testa, seduto in poltrona mentre sorseggia un bicchierino di frullato di mela marcia, che dice alla moglie: «Me la sono vista brutta, questa volta». E la moglie: «Ti ho sempre detto di stare lontano dalle zanzariere». E lui: «Sono l'unico punto di accesso». E lei: «Lo so, amore, ma devi stare attento. Non puoi fermarti su una zanzariera troppo a lungo». E lui: «Ero stanco, dovevo riposare. La parete ovest è molto impegnativa». «Lo so, lo so» dice lei passandogli un pezzettino di buccia di banana. «Senti un po', hai notizie di Ludwig?» chiede lo scarafaggione addentando la buccia. La moglie, qui, abbassa il capo. Lo scarafaggione non dice niente. Smette di masticare. Una lacrima gli scende sul viso, e poi, dopo aver bevuto un altro sorso di frullato, dice: «Era un bravo scarafaggio».

6.6.25