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Mio padre è un settantenne fanatico di Netflix. Guarda tutto, purché sia su Netflix. Filmate un lombrico che fissa una foglia per tre ore, mettetelo su Netflix e mio padre lo guarderà. Poi attenderà la seconda stagione. Così, quando mi capita di vedere qualcosa di interessante, qualcosa che raggiunga almeno le seimilacinquecento stelline, gli suggerisco di guardarlo. E un paio di settimane fa vado a pranzo da loro e suggerisco a mio padre di guardare Squid game. Lui fa spallucce. Sì, ho presente, mi fa, ma non è il mio genere. Ok, dico io, però provaci, almeno. Mm, dice lui. Dopo qualche giorno lo rivedo e gli dico: hai visto Squid game? No, mi fa lui. E io: guardalo, non è male. Lui non dice niente. Poi ancora: visto Squid game? No. Guardalo. Ok. E così via. Gli dico di guardare Squid game ancora un paio di volte, poi mi dimentico della faccenda e vado avanti con la mia vita. Finché, ieri, mi chiama mia madre: «Senti, tuo padre è due giorni che guarda una serie in coreano. Gli ho detto: ma sei diventato scemo? Cosa guardi una serie in coreano, che non capisci niente? E lui: "Capisco, capisco!". Però così tira scema me». Solo a quel punto mi rendo conto di due cose: la prima è che Squid game non è stato ancora doppiato e dunque, se uno sa soltanto l’italiano e il dialetto piacentino, servono i sottotitoli; la seconda è che mio padre, vedendoci come un cavallo da giostra, i sottotitoli non li legge. «Tu ne sai qualcosa?» mi fa mia madre. «Io?» le dico «No, niente».