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Oggi, dopo un anno e due mesi asserragliato in casa, ho sentito il bisogno di sgranchirmi le gambe e sono uscito per fare una passeggiata. La passeggiata doveva avere una durata di cinque minuti (non volevo esagerare, essendo la prima, col rischio di strapparmi o che) e il percorso è stato studiato nei minimi particolari durante la notte, con mappe, pedine colorate e tutto. Le previsioni dicevano bel tempo. Ho indossato le mie scarpe da passeggiata – del tutto identiche a quelle che uso quando non passeggio, tanto che a un occhio poco attento potrebbero sembrare le stesse – e sono uscito. Il tempo era bello, niente da dire. Cielo azzurro, smog e vecchietti claudicanti. Comincio a passeggiare e sento il sangue che si spande per le arterie facendo il rumore dei termosifoni quando si accendono. Tutto sembra filare liscio, mi ricordo ancora come si passeggia e sembra emozionante. Poi, al chilometro zero virgola due (di zero virgola quattro complessivi), una cimice asiatica (sempre loro) mi cade nel colletto della camicia, probabilmente paracadutata da un piccolo velivolo zeppo di cimici kamikaze, si infila sotto di essa (sotto la camicia, intendo) e comincia a passeggiare a sua volta sul mio (splendido) corpo. Decido così di interrompere la passeggiata e di tornare a casa (per farlo, sono comunque costretto a percorrere i restanti zero virgola due chilometri, completando mio malgrado la passeggiata), e nel frattempo mi dico che probabilmente la cimice non si è davvero infilata sotto i miei indumenti, ma che dopo un breve atterraggio di fortuna era saggiamente volata via. Perciò, una volta a casa, non mi rotolo sul pavimento come mio solito, ma riprendo le mie attività. Mezz’ora più tardi, mentre sto scrivendo una poesia sui cincillà, una cimice asiatica esce da sotto il polsino destro, si leva il minuscolo cappello in segno di saluto, e, senza indugiare oltre, se ne va.