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Altri studenti sembrano capire che l’empatia è sempre precariamente arroccata tra il dono e l’invasione. Non premono nemmeno lo stetoscopio sulla mia pelle per chiedermi se va bene. Hanno bisogno del permesso. Non vogliono presumere. La loro balbuzie onora inconsapevolmente la mia privacy: posso… potrei… ti dispiacerebbe se… ascoltassi il tuo cuore? No, dico loro. Non mi dispiace. Non dispiacermi è il mio lavoro. La loro umiltà è una sorta di compassione a sé stante. Umiltà significa che fanno domande, e fare domande significa ottenere risposte, e ottenere risposte significa che ottengono punti sulla checklist: un punto per aver scoperto che mia madre prende il Wellbutrin, un punto per avermi fatto ammettere che ho passato gli ultimi due anni a tagliarmi, un punto per aver scoperto che mio padre è morto in un silo per il grano quando avevo due anni – per aver realizzato che un sistema radicato di perdite si estende radiale e rizomatico sotto l’intero territorio della mia via.

Esami di empatia, L. Jamison

22.7.21