Volevo chiedere pubblicamente scusa al mio amico Giampiero Cartapesta.
Io e Giampiero siamo stati migliori amici in prima liceo. A quell'età, quando sei amico di qualcuno pensi che lo sarai per sempre, ma poi non è quasi mai così.
Perché a un certo punto smetti di essere amico di un amico? Senza che sia successo niente, tra l’altro. O, be’, quasi. Qualcosina è successa, Giampiero, e proprio per questo – per tre fatterelli in particolare – voglio chiederti scusa.
Prima di tutto ti chiedo scusa per quello che è successo durante la partita Sanpacollorentese-Puerta Rocca.
Avevamo quattordici anni, che ne sapevo io di cos'è la lealtà? E di cos’è l’amicizia. Perciò. 1 a 1 a dieci secondi dalla fine, io di qua, tu di là. Il campo una palude, era piovuto per tre giorni. Eravamo tutti fradici, stanchi, la partita non contava niente.
Ma per te contava, lo so, ti piaceva tantissimo il calcio, e piaceva anche a me. Io non avevo segnato, in quella partita. Anzi diciamocela tutta: avevo fatto schifo. Ma anche tu avevi fatto schifo: mentre gli altri bambini si esibivano in rabone, rovesciate e dribbling, noi sembravamo due giocatori di baseball, i nostri tiri finivano tutti nel cielo. Ma ormai la partita era finita, in pratica. Schifo tu, schifo io, andiamo a casa e l'amicizia è salva.
E invece tu che fai? Che mi combini proprio all’ultimo secondo? Prendi la palla e ti involi. Non potevo credere ai miei occhi. Ma che ti involi, Giampiero?, ho pensato. Ma dove vai?, ho pensato mentre ti guardavo filare come un motorino, il pallone incollato al piede non per tua abilità tecnica ma per il fango che gli impediva di rotolare; correvi tagliando da un capo all'altro la metà campo avversaria, cioè la mia, e di mia competenza. Per uno strano caso del destino, infatti, pur essendo attaccante in quel momento ero l’ultimo difensore, l'ultimo baluardo dell'onore e della dignità di tutta San Paco Llorente.
Dopo di me, solo il portiere, che per inciso era Mimmo Scapezzuto, alto un metro e un tappo, mezzo cecato, gli avrebbe fatto gol pure un lombrico.
E lì, Giampiero, lo ammetto, non ho pensato: uh, che bello! Il mio migliore amico Giampiero Cartapesta sta per fare gol e diventare l’eroe di giornata! No. Ho pensato: col cazzo. Ho pensato: buttalo giù, Joey. Ho pensato: ma è il nostro amico Giampiero! Ho pensato: butta. giù. quello. stronzo. Ho pensato: va bene.
Non so perché. Forse potevo sopportare di non essere il protagonista di questa fantastica avventura chiamata Vita, ma non potevo sopportare che lo fossi tu. Il migliore amico è anche il primo dei rivali, no?
Così ho cominciato a correre. Ti sono venuto incontro. Pensavo che, vedendomi, avresti calciato il pallone fuori, mi avresti abbracciato e avresti detto a tutti: "Questo qui è il mio migliore amico! Non posso segnare, non posso fargli un simile torto!". E tutti ci avrebbero applaudito! E poi saremmo andati a mangiare la pizza e tu avresti mangiato la pizza che dicevo io, e poi ti avrei rimesso nella custodia e sarei andato a casa.
Non era quello il finale perfetto, Giampiero?
Lo era.
Ma tu cos'hai fatto, invece? Dillo a queste brave persone, che cos'hai fatto. Mi hai saltato, Giampiero. Come un Maradona qualunque, tu, come il più scemo dei birilli, io.
E l'amicizia? E il patto di sangue? E ti metto una buona parola con mia sorella? Dove sono finite tutte queste meraviglie?
Mi hai saltato per fare cosa, poi? Correre verso la gloria? Segnare a Mimmo Scapezzuto? Vincere la classifica cannonieri? Diventare un calciatore professionista? No, Giampiero. Lo capisci anche tu che non potevo permetterlo.
E così sei caduto. Ricordi? Ma certo che lo ricordi, i momenti orribili non si scordano mai. Lo ha detto anche Schopenhauer: «Ricordo più le sconfitte che le vittorie». O forse era Carlo Ancelotti. Comunque. Un istante dopo avermi dribblato sei caduto di faccia nella più profonda e melmosa pozza di fango che abbia mai visto. Ci avevo sputato, in quella pozza. Mi ci ero soffiato il naso. Ci avevo svuotato la lettiera del gatto Mignolo.
Mimmo Scapezzuto ha raccolto il pallone, l'arbitro ha fischiato la fine, tutti in pizzeria!
Siamo rimasti soli.
Ti sei alzato dalla fanghiglia. Gesù, com'eri conciato! Se tua madre ti avesse visto, si sarebbe chiusa nella lavatrice per farsi poi brillare.
Mi hai guardato e mi hai chiesto, incredulo: «Mi hai spinto?». E io ti ho detto: «Ma sei scemo? Sei caduto da solo, Giampiero, non t’ho manco sfiorato». Tu sei rimasto dubbioso, incerto su come sentirti. Allora io ti ho messo un braccio al collo, ti ho sorriso e con gli occhi più sinceri del mondo ho detto: «Non l'avrei mai fatto, lo sai», “Se tu non ti fossi involato verso la mia porta!” ho aggiunto nel pensiero.
E invece l'ho fatto: ti ho spinto. Un tocco leggero, tanto da farti perdere l'equilibrio, non se n’è accorto nessuno. Un tocco da maestro, mi permetto di aggiungere.
E ti chiedo scusa, per questo.
L’altro motivo per cui ti chiedo scusa è la celeberrima interrogazione di matematica con la signorina Molino. Te la ricordi, la Molino. Ci odiava. Me e te. Un po’ perché eravamo odiosi, ci saremmo odiati anche noi, fossimo stati lei; ci odiavamo un po' anche noi pur essendo noi. Ma poi anche perché eravamo amici, facevamo rumore, ridevamo sempre, ci mettevamo in fondo all’aula e giocavamo a bocce.
Un giorno interroga. Cala un silenzio lugubre. La Molino mette la mano nella scatola dei bigliettini. Io sono il 9, tu il 7. La Molino pesca un bigliettino, lo apre: 9.
Questa non ci voleva, penso. Questa è la cosa peggiore che mi poteva capitare, penso. Mi alzo, esco, comincio a procedere mestamente verso la cattedra-patibolo e cosa vedo? Te, Giampiero, tutto rannicchiato sul banco, che invece di dirmi "Coraggio, amico mio!", invece di dirmi "Ti suggerisco io, amico mio!", invece di dirmi "Esco io al tuo posto, amico mio!", ti nascondi dietro la schiena di Carlo Porrini, mi guardi, mi indichi e, con mia sorpresa, sghignazzi.
Ma porca miseriaccia, penso. E l'amicizia? E le sigarette rubate a tuo padre e fumate di nascosto in soffitta? E il “quando sarò grande diventerò presidente dell'Italia e ti nominerò presidente della Francia”? Dov'erano finite tutte queste cose?
Mi hai ferito, Giampiero. Molto. Mi hai deluso.
«Baruffa, ci sbrighiamo?» mi incalza la Molino.
«Arrivo, arrivo» le dico con la morte nel cuore.
Così arrivo alla cattedra e poi, non lo so, a volte quando tutto è perduto, la vita sembra dirti: “Joey, ci sono io per te. Sono io la tua vera migliore amica. Non quel pusillanime di Giampiero Comesichiama”. E non c'è amica migliore, sai?
Con la voce della Molino, la Vita dice: «Pesca tu il prossimo bigliettino, Baruffa».
Oh, Giampiero! Che gioia! In quel momento tutto è tornato al proprio posto.
Senza pensarci un attimo pesco un bigliettino, lo apro, vedo il numero 21, Tassoni, guardo la Molino dritto negli occhi e senza tradire emozione alcuna dico: «7».
E tu smetti di ridere.
Richiudo il bigliettino e lo ributto in mezzo agli altri prima che a qualcuno venga in mente di controllare.
Avresti dovuto vedere la tua faccia! In confronto, la faccia di quando ti avevo steso nella putrida melma di quel lurido campetto dissestato sembrava radiosa.
Come non bastasse, io prendo 7, tu prendi 4. E poi prendi pure la materia. E poi ti bocciano. E poi chi ti ha più visto? Ah ah. Chi ride, adesso?
E… mm, ah sì… ti chiedo scusa, per questo.
E siamo alla fine.
Le ho ordinate per gravità, le mie tre colpe. Sai già di che si tratta, vero?
Giorgia Rossi.
Sì, lo so. Mi hai fatto una testa così, con Giorgia Rossi. Tre mesi a dirmi quanto fosse bella, intelligente, simpatica, speciale. Non lo siamo tutti? Mi sono sciroppato non so quante ore di analisi chirurgiche del niente.
Niente, sì, perché Giorgia non ti filava di striscio, e dunque ero tranquillo, la nostra amicizia al sicuro. Gli amici si vedono nel momento del bisogno, dicono. Probabilmente perché è un momento che non si perderebbero per niente al mondo.
Ma poi un giorno vi vedo parlare. Giorgia ride, mentre ti parla. Arrossisce, addirittura.
Penso: ohi ohi. Penso: questo è peggio del gol. Penso: potevamo fargli fare gol, a 'sto punto. Penso: ma questo davvero no, non possiamo permetterlo.
Fossi stato Alain Delon, te l’avrei soffiata. Sarei arrivato col cappottino di cammello, ti avrei dato una spinta dicendoti «Smamma, sgorbio» e poi mi sarebbe bastato uno sguardo e un «Che ci fa una bella ragazza come te in un posto come questo?». Uno potrebbe obiettare che non per forza Giorgia avrebbe preferito la bellezza alla giampierezza, e chi lo può sapere? Comunque non ero Alain, però c’era una cosa in cui me la cavicchiavo: le parole.
Un giorno sembra che Giorgia abbia cambiato idea all’improvviso. Si è fatta distante. Fredda. Ma soprattutto si è messa con uno di terza, che poi è venuto da te e ti ha detto: «Se guardi ancora Giorgia ti schiaccio come una lattina».
Tu non te ne capacitavi. Dicevi che le avevano scritto una lettera. Una lettera anonima, piena di calunnie. Per screditarti.
«Sei paranoico, Giampiero» ti dicevo. «Tieni, fumati 'sta paglia, offro io» dicevo porgendoti una sigaretta rubata dal pacchetto di tuo padre.
«No, non mi va» avevi detto tu, disperandoti. E da quando un bambino rifiuta una sigaretta?, avevo pensato.
«Dai dai, il mondo è pieno di donne più adatte a te» ti avevo detto, rincuorandoti, intendendo dire che Giorgia Rossi non era adatta a te in quanto un po’ troppo, per te.
«Se becco chi le ha scritto la lettera…!» avevi detto allora tu alzando un pugno al cielo, sprizzando rabbia.
«Ma tu vaneggi, Giampiero!» avevo detto io, sudando freddo.
«Chissà cosa c'era scritto…» avevi detto poi, tornando mogio.
«Non ci pensare» ti avevo detto spegnendo la sigaretta sulla gomma della tua bici.
Be’, e chi se lo ricorda più cosa c'era scritto. Ricordo solo che era una lettera acerba, ampollosa, un po’ troppo enfatica, per quanto, dovrai pur ammetterlo, efficacissima. Mi sa che leggevo un po’ troppo Hermann Hesse. Non ne vado fiero.
E ti chiedo scusa, per questo.
(Per la lettera a Giorgia, dico, non per Hermann Hesse).