I dolcetti (1460)

Una mattina suono il citofono di casa della mia amica Paola.
Quando si apre la porta, però, sulla soglia non si presenta Paola, bensì una versione miniaturizzata di Gary Oldman in Dracula: la nonna di Paola.
La cosa mi sorprende relativamente perché so che la vecchiarella, quando le gira, si presenta con un valigione, il citofono come unico preavviso, e senza molti preamboli annuncia: «Sono venuta a trovarti», e resta lì un mese.
«Buongiorno, signora» le dico.
«Buongiorno» mi dice lei un po’ sospettosa.
«Paola?» chiedo.
E lei, secca: «Non c’è».
Per nulla sorpreso dalla ruvidezza della vecchia così come dall’assenza di Paola nonostante il nostro appuntamento, scrivo a quest’ultima per chiedere lumi sull’apparente incongruenza.
Paola risponde con “Scusa sono dovuta uscire un attimo con mia mamma… arrivo subito!”.
Sospiro, poi guardo la nonna di Paola, che mi guarda a sua volta con aria interrogativa.
«Paola dice che devo aspettarla qui» dico sollevando il cellulare, non sapendo se per lei è ovvio che il mio gesto significa “Sa, Paola e io stiamo comunicando attraverso questo oggetto” e non “Signora, mi duole informarla che questo oggetto sta per abbattersi sul suo capo”.
«Entra,» mi fa lei un po’ incerta, «tra poco tornano».
La seguo fino in cucina, dove mi indica una sedia e mi fa: «Siediti», perciò mi siedo e aspetto. Valuto per un momento l’ipotesi di fare conversazione, ma non mi va, e nemmeno a lei sembra andare, quindi restiamo in silenzio. Essendo una donna del fare, comunque, la nonna di Paola comincia a estrarre dai cassetti pentolini, ciotole, mestoli e cucchiai, quindi rovista nel frigo e negli scaffali pescando ingredienti di vario genere e si mette a preparare qualche intruglio mentre io comincio a smanettare sul cellulare.
Ogni tanto mi guarda e abbozza un sorriso prima di tornare alla sua preparazione.
Quando, mezz’ora dopo, ha concluso con i fornelli, mi viene appresso quatta quatta e non appena alzo la testa per capire che cosa voglia, vedo che mi porge una specie di raviolo ricoperto di zucchero a velo.
«Lo vuoi un dolcetto?» mi fa.
Ora, se c’è una cosa che detesto è che mi si metta qualcosa da mangiare sotto il naso desiderando che la inghiotta e associando a questo eventuale inghiottimento una qualsivoglia reazione emotiva.
La ragione è che sono schizzinoso o, come si dice qui a San Paco, “smorbi”.
Per tutti i non-smorbi, uno smorbi è una persona difficile e schifiltosa con il cibo; per noi smorbi, invece, uno smorbi è solo una persona che ha dei gusti molto ben definiti, degli standard precisi e delle pretese accurate che applica a tutto ciò che si suppone debba introdurre nel proprio corpo.
Uno smorbi non mangia a prescindere, non mangia tanto per mangiare, non mangia per dare soddisfazione ad altri, non mangia se non ha fame e a volte non mangia anche se ha fame, e questo perché, soprattutto, non mangia se il cibo che dovrebbe mangiare non ha prima superato tutti i controlli di sicurezza & qualità tipici della smorbiezza. Se uno smorbi dice che gli piace l’insalata di riso, questo non significa che mangerà qualunque insalata di riso: ad esempio non la mangerà se è stata preparata da un facocero, o se è rimasta un’ora (ma facciamo venti minuti) fuori dal frigo.
Esistono poi due tipi di smorbi: lo smorbi che ha il coraggio di dire apertamente “no, grazie” (“no, fottiti”) a chi gli offre amorevolmente del cibo, e poi lo smorbi che questo coraggio non ce l’ha e dunque metterà in atto ogni possibile stratagemma per evitare di ingoiarlo, tipo infilarsi una cotoletta in tasca o fare conversazione per due ore con un pezzetto di cibo in un angolo della bocca, salvo poi, alla prima occasione, andarlo a sputare in un vaso di fiori con la nonchalance di un fenicottero. Io sono uno smorbi del secondo tipo ma, se messo alle strette, posso diventare rapidamente del primo.

La nonna di Paola non sa nulla di tutto questo. Per lei sono un essere umano con una bocca, e tanto basta.
«Lo vuoi un dolcetto?» mi ha appena chiesto piazzandomi il raviolo o quello che è sotto il naso.
Io non lo voglio, il dolcetto, e per una serie di ragioni: in quel momento non ho voglia di dolci; non so cosa c’è dentro; tendo a non mangiare cibo preparato da persone che tengono un fazzoletto nella manica del golfino.
Tuttavia, in questa particolare situazione non ho la prontezza o il coraggio di dire “no, grazie” né l’occasione di prendere il dolcetto e infilarmelo in tasca senza che la nonna di Paola mi veda e, per il dispiacere, ne muoia.
Avrebbe senso dirle che non amo quando la gente mi offre del cibo? So che è universalmente un gesto di affetto, accoglienza e balle varie, e so che lei viene da un mondo on/off dove se mangi stai bene e sei vivo, se non mangi sei morto; se accetti il cibo sei educato, se non lo accetti sei uno stronzo; se ti piace il cibo che ti è stato offerto sei buono, se non ti piace sei malvagio. Un mondo dove il cibo preparato con amore non può fare schifo.
Così prendo il dolcetto, ringrazio la nonna di Paola e lo mangio.
Il dolcetto non è male (visto?), sa di panna e limone.
«Prendine un altro» mi dice.
Ma sì, penso.
«Sì, grazie» le dico, contento che il dolcetto sia buono, contento di farla felice agendo in sincerità. Dunque ne mangio un altro.
La nonna di Paola mi osserva mangiare i dolcetti. Sembra soddisfatta.
«Un altro» mi dice poi.
A quel punto è chiaro che la vecchietta non si stancherà mai della soddisfazione che le dà vedermi mangiare i dolcetti che lei stessa ha preparato con tanto amore. Se, una volta completamente rimpinzato di dolcetti, stramazzassi al suolo privo di sensi, la nonna continuerebbe a infilarmeli in bocca a forza: “Prendi un altro dolcetto,” direbbe, “ce ne stanno ancora” direbbe, sia nel senso che ne ha degli altri, sia nel senso che dentro il mio corpo c’è, spingendo, tutto lo spazio per metterli.
Alla fine allora devo essere forte e dire: «No, grazie».
La nonna di Paola mi guarda, accigliata.
«Anzi devo scappare» aggiungo e, per rafforzare la veridicità di quella presa di posizione mi avvio alla porta ma, i casi della vita, proprio in quel momento Paola fa ritorno. Con lei c’è sua madre, che mi dice: «Eugenio! Ti fermi a pranzo?».
«Mm… ok!» dico, ormai completamente in balia di questo manipolo di gastrocentrici, e poco dopo arriva anche il padre di Paola, e poco dopo ancora siamo tutti a tavola, mangiamo, parliamo e ridiamo, tranne la nonna di Paola, che sta seduta in silenzio sbocconcellando qua e là.
Alla fine del pranzo, però, si alza con decisione, va in cucina e poi torna con la ciotola di dolcetti.
«E questi?» dice la mamma di Paola.
«Dolcetti» dice la nonna di Paola facendo spallucce.
«Ah, ti sei tenuta impegnata, brava» le dice la madre di Paola, e mangia un dolcetto.
Anche il padre di Paola mangia un dolcetto. E anche Paola. E anch’io. E poi un altro, e un altro ancora. Sono piccoli, sono freschi, sanno di panna e limone. Un po’ aciduli, forse. Per via del limone, sicuramente. Per via della panna, anche. Panna acidula, no? E tutto torna.
«Ma come li hai fatti?» chiede a un certo punto la mamma di Paola mangiando un altro dolcetto, mentre io e il padre di Paola e Paola stessa mangiamo un altro dolcetto anche noi.
«Con il limone» dice la nonna di Paola, «con la farina» dice, «con lo zucchero» dice , «con l’olio» dice, «con la fecola» dice, e «con la crema».
Qui la mamma di Paola aggrotta la fronte, la bocca piena di dolcetto mezzo masticato.
«Quale crema?» le chiede liberando uno sbuffetto di zucchero a velo.
«La crema» dice la nonna di Paola.
«Ma quale crema?» le chiede ancora la mamma di Paola, guardando poi tutti i presenti, i quali, pur continuando a masticare, mettono nel masticamento sempre meno convinzione.
«La crema, la crema…» dice la nonna di Paola, un po’ stizzita.
«Sì, ho capito, ma quale crema, mamma? Come l’hai fatta ‘sta crema?».
«Non l’ho fatta» dice allora la nonna di Paola.
Qui ci voltiamo tutti a guardarla, in silenzio. Anche il mezzobusto del Tg smette di leggere le notizie e rimette un dolcetto mezzo addentato sulla scrivania.
«Era nel frigo» dice la nonna di Paola.
«Ma quale crema nel frigo?» dice la madre di Paola. «Non c’era nessuna crema nel frigo».
Al che io comincio a sudare freddo e penso: signora nonna, per favore, dia la risposta giusta, dica “la crema nella ciotola verde”, o “nella ciotola rossa”, “la crema sul ripiano alto”, o “sul ripiano basso”, dia una risposta qualunque, anche inventata, “la crema brûlée”, “la crema cotta”, “la crema bianca”, “la crema de la crème”, qualunque cosa purché contenga la parola “crema” e purché poi la madre di Paola risponda finalmente con “Ah, la crema! E non potevi dirlo subito? La crema per i dolcetti, certo!”, e così tutto sarebbe risolto.
Ma la nonna di Paola, ora stizzita, dice solo «La crema, la crema!» e da quel momento in poi incrocia le braccia e si avvale della facoltà di non rispondere.
Nessuno mangia più i dolcetti, che comunque ormai sono finiti e giacciono meditabondi nei nostri stomaci indifesi. Immagino uno sportellino che si apre nella parte inferiore di ogni dolcetto, una scaletta di fecola che viene calata fino a terra, piccoli animaletti gelatinosi con le antenne che scendono armati di bisturi, si guardano intorno e dicono: «Bene, cominciamo».
«Va be’, faccio il caffè» dice allora la mamma di Paola, alzandosi.
Dopo il caffè facciamo due chiacchiere e il tempo scorre gradevolmente, la nonna sembra assopita e dopo un po’ il padre di Paola si assenta, quindi torna. Poco dopo anche la mamma di Paola si assenta e poi torna. Allora si assenta Paola, che poi torna ma a quel punto mi assento io, e io non lo so che cosa si sono assentati a fare, gli altri, ma io mi sono assentato per un motivo molto preciso: guadagnare celermente il cosiddetto vaso di maiolica, dove poi mi siedo e assisto con un qual certo sbigottimento a quella che sembra la totale liquefazione di ciò che un tempo stava più o meno solidamente al mio interno, quindi torno di là e trovo tutti seduti da qualche parte, ma con certe facce… e tutti che si massaggiano debolmente la pancia e si lamentano producendo il suono sommesso ma nervoso di un gatto in attesa di essere palpato dal veterinario, e anch’io subito dopo comincio a lamentarmi, a tenermi un po’ la pancia con le mani per via di certi dolorini, che poi diventano dolori, e anche gli altri probabilmente dai dolorini passano ai dolori, e allora ci pieghiamo tutti su noi stessi, poi ci inginocchiamo, poi ci adagiamo sul pavimento dicendo «Ohi ohi…», tutti tranne la vecchina, la nonna di Paola, che se ne sta in piedi tranquilla, minuta com’è, bella massiccia, lei, una roccia, sana, fresca, rosa e paffuta, centoquattro anni e non sentirli, lì che ci osserva silenziosa.
«Signora…» le dico afferrandole una caviglia, «ma… ma perché lei… perché lei non sta male? Non ha mangiato i… i dolcetti?».
«I dolcetti? Nooo…» dice lei liberandosi dalla presa e andando in cucina. Poi, tornando con un’altra ciotola, aggiunge: «Io sono tanto difficile con il mangiare, sai? Da cinquant’anni mangio solo riso in bianco e uova sode, e la sera un frutto».
Detto questo, si china e mi piazza un dolcetto sotto il naso.
«Tieni, mangia» mi dice.
«Veramente non mi sento al massimo» le dico.
«Così mi fai restare male» dice lei, delusa. «Vuoi far piangere la nonna?».
«Ma lei… lei non è mia nonna» dico con un fil di voce.
«Fai contenta la nonna» dice lei cercando di infilarmi in bocca il dolcetto, «li ho fatti per te».
«E va bene,» farfuglio, «tanto ormai…», e lascio che la nonna di Paola mi infili in bocca il dolcetto. Poi mi sorride e, dopo aver preso un altro dolcetto dalla ciotola, me lo spreme in bocca e dice: «Bravo, mi dai soddisfazione».

7.11.25