Ieri mi è tornata in mente la parabola dei talenti. Io mica l'ho mai capita, 'sta parabola. Cioè, sono convinto che quelli che l'hanno scritta abbiano toppato. Loro volevano comunicare questo messaggio, penso: "Dio ti ha dato delle qualità ed è buona cosa che tu ti impegni senza paura, anche rischiando, per farle fruttare". Un bel messaggio. Va be' che di bei messaggi è pieno il mondo. Tipo, non so: "Sii te stesso". Bel messaggio. Ma se uno fa schifo? In quel caso il messaggio dovrebbe essere: "Sii molto meglio di te stesso" o “Sii qualcun altro”. Anche quando ero bambino, la parabola dei talenti non mi andava a genio. Il servo dice al padrone: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». In pratica gli sta dicendo che è uno sfruttatore fannullone con un brutto carattere. Ti aspetteresti un «Ma come ti permetti? Ma se lavoro diciotto ore al giorno nel mio datterificio!». Invece il padrone conferma e dice di sé: «Sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso, avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio, con l'interesse». Praticamente è uno strozzino in combutta con altri strozzini. Uno strozzino con dei servi che tra l’altro chiama "servi", questo già non mi piaceva quand'ero un piccolo bambino razionalista. Me la leggevano a catechismo o in chiesa e pensavo: "Mm, a me questa storia mica mi sconfinfera". E tornavo a casa, camminando tutto dubbioso lungo il viale, le mani dietro la schiena, fumando la mia pipa. E poi c'era il discorso della gestione dei talenti, che non mi tornava proprio: al primo servo dà cinque talenti, lui li investe e li fa fruttare e ne fa altri cinque. Quando il padrone torna, gli restituisce i cinque talenti più i cinque guadagnati. Il padrone lo premia offrendogli "autorità nel molto", cioè lo promuove, penso, forse a capo dei servi, o caporeparto nel datterificio. Stessa cosa il secondo, anche se gli vengono affidati solo due talenti. Però, ho sempre pensato, e se li avessero persi? Un investimento con una rendita del 100% deve comportare rischi enormi. Avrebbero tranquillamente potuto perderli. Quale sarebbe stata la reazione del padrone, in quel caso? Un rimprovero? Non credo. Frustate, come minimo, o molto peggio. Erano pur sempre i tempi in cui, se rubavi, ti mozzavano la mano. Se il tuo occhio ti offendeva, dovevi cavarlo. Tempi in cui per un niente ti crocifiggevano o ti lapidavano. Eccetera. Così arriviamo al nostro eroe, il servo nel quale mi immedesimavo: riceve un talento da un padrone duro e sfruttatore. Tutto intorno, gente mutilata o crocifissa per una mossa sbagliata o un’incertezza. Tipo Gesù: «Sei tu il figlio di Dio?». E Gesù: «Tu lo dici». Praticamente solo una constatazione. Immagino stesse prendendo tempo, pensando: “Qua si mette male”. Però, niente: crocifisso. Al posto del servo, allora, anche il mio pensiero sarebbe stato: "Eugenio, non perdiamo questo talento per nessun motivo al mondo". Così lo ha sotterrato, si è fatto la sua vita tranquilla e poi lo ha restituito. Liscio. Da bambino (ma anche oggi), quando il padrone torna e lo rimprovera perché gli ha affidato uno e si è visto ritornare uno, il mio cuore ribolliva indignato. Ero sicuro che non fosse la giusta conclusione della vicenda, parlando di Giustizia. Il messaggio della parabola per me non era "Devi far fruttare i tuoi talenti anche a costo di rischiare" ma "Questo padrone è ingiusto". Tornando a casa, allora, nella mia testa riscrivevo la parabola nella versione corretta:
"Avverrà come di un uomo - un uomo molto ricco, proprietario di un importante datterificio - che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno. Il servo che ricevette due, disse: «Perché a lui cinque e a me due?». E il padrone: «Non cominciamo». Ma il servo: «E perché a lui uno soltanto?». E quello che ne aveva ricevuto uno: «Non mettermi in mezzo, uno va benissimo, anche troppo». E il padrone: «Elazar, fai sempre polemica. Ti taglio anche l'altro orecchio?». E Elazar: «Due sono perfetti». E il padrone: «Oh là». E partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, Azaria, andò subito alla taverna a giocarseli ai dadi e, barando, ne vinse altri ventidue. Il secondo, Elazar, li spese a donne nel giro di un’ora. Disperato, chiese aiuto ad Azaria, che gli diede quattro dei suoi talenti e gli disse: «Questi qui però l'anno prossimo me li devi restituire raddoppiati, altrimenti ti faccio fuori». Elazar disse sì, pensando no. Colui che aveva ricevuto soltanto un talento pensò: «Io non voglio sapere niente di questa storia». Fece una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone tornò e volle regolare i conti. Colui che aveva ricevuto cinque talenti ne presentò altri cinque. Colui che aveva ricevuto due ne presentò altri due. Erano convinti che il padrone li avrebbe elogiati e premiati, ma il padrone li rimproverò: «Servi avidi e irresponsabili,» disse loro, «questa era una prova, volevo vedere se potevo fidarmi di voi consegnandovi una somma di denaro. Ma voi lo avete rischiato, senza chiedermelo prima. Avete rischiato qualcosa che non era vostro, non ne avevate diritto. Inoltre, se mi restituite cinque più cinque e due più due, mi viene da pensare che stiate trattenendo qualcosa per voi, magari avete guadagnato venticinque. E in che modo, mi chiedo? Con qualche attività illecita di sicuro, conoscendovi, o forse al gioco. Più tardi andrò alla taverna a chiedere se qualcuno vi ha visto». «No,» disse Elazar gettandosi ai piedi del padrone, «alla taverna no! Specialmente non chieda a Miriam». E Azaria: «Zitto, scemo!». Allora il padrone: «Come immaginavo. Comunque sia, durante il mio viaggio sono cambiato: ho comprato un dattero della fortuna e il biglietto diceva “Sii qualcun altro”, e ora detesto la servitù. Ho riflettuto e ho deciso di diventare una persona retta: tenetevi pure i talenti e andate, non fatevi più vedere». I due se ne andarono e, appena voltato l'angolo, Azaria chiese a Elazar di restituirgli il prestito, ma Elazar gli diede invece una botta in testa e gli rubò tutto. Intanto il padrone, rivolto all'ultimo servo: «Caro Eugenio, tu sei stato buono e affidabile. Ti ho dato un mio talento e, per quanto fosse poco, lo hai conservato e protetto, e ora me lo rendi tale e quale, anche se sporco di terriccio. Bravo». E Eugenio: «Grazie, Signore». «Molto bravo» disse ancora il padrone. «Grazie, Signore» disse ancora Eugenio. Poi, silenzio. Un colpo di tosse. Quindi: «Perciò, se due talenti più due talenti fanno quattro talenti, anch'io posso tenere il mio e andare, poiché libero, no?» disse Eugenio infilandosi le scarpe. E il Signore: «Eh? No no no, tu sei un collaboratore molto prezioso, caro Eugenio, ti tengo con me. Infila il piede in questa cavigliera, per favore».