Una mattina mi ritrovo a fare un breve viaggio con il mio anziano padre, evento ormai piuttosto raro.
Dobbiamo fare un'ora e mezza insieme sulla sua anziana automobile, e questo perché la mia si è piantata a quasi duecento chilometri da casa, l'ho dovuta abbandonare sul posto e adesso è in attesa del recupero in un’autofficina nella campagna piemontese.
L'anziano padre arriva puntuale sotto casa mia alle otto del mattino, mi dà le chiavi e si mette sul sedile del passeggero. Indossa grandi occhiali da sole e mastica una caramella – o almeno spero – e guarda dritto oltre il parabrezza, già pronto ad avvistare ogni possibile pericolo.
Un osservatore ingenuo potrebbe pensare che la consegna delle chiavi e il fatto che io manovri i comandi dell'anziana automobile facciano di me l’unico guidatore. In realtà l'anziano padre non sa rinunciare a dirigere le operazioni, esattamente come quando, trent'anni fa, mi dava le prime lezioni di guida nel grande spiazzo deserto dietro la Coop di San Paco Llorente.
Non amo chi, mentre guido, si fa prendere dall’ansia e mi dice cosa fare o non fare (cioè quello che faccio io quando guida un altro), tipo la mia amica Paola che ogni tanto mi chiede: «Ma non siamo troppo vicini al ciglio della strada?» (le rispondo: «Se ti fa sentire più sicura mi sposto in modo che tu sia esattamente all’altezza della linea di mezzeria»), ma nel caso di questo particolare viaggio accetto la cosa senza protestare, sia perché amo ancora meno discutere, sia perché in fondo lo ritengo il prezzo da pagare per avere un comodo passaggio all'autofficina in questione.
«Freccia» mi fa quando sto per partire.
«Freccia inserita, comandante» gli dico.
«Flap?».
«Flap flappati comandante».
«Hai guardato nello specchietto?».
Qui potrei dirgli: “Sì, comandante, ho guardato circa dieci secondi fa, dice che ora posso immettermi in tutta sicurezza? Intendo: basta guardare una volta e poi non ci si pensa più fino all’arrivo o si guida guardando costantemente nello specchietto?”, ma decido che è troppo presto per il sarcasmo, aspettiamo almeno di essere in autostrada.
Nel breve tratto per arrivarci, l'anziano padre dà sfogo alle proprie inclinazioni: l'esagerata percezione del pericolo quando non è lui al volante; la fissa per gli autovelox e le telecamere. La prima deriva da una mancanza di fiducia nel prossimo e in particolare nel sottoscritto, nonostante i miei quattordici titoli mondiali vinti a Grand Prix 2, 3 e 4. Il fatto è che io sono il figlio, lui il padre, e questo non si cambia: con il passare del tempo lui diventa sempre più saggio, io resto sempre meno saggio, per quanto anch’io, questo forse può concederlo, un po’ più saggio o, più probabilmente, un po’ meno non-saggio.
La fissa degli autovelox deriva invece dal fatto che l’anziano padre li percepisce come trappole ingannevoli che, al di là della multa, lo farebbero sentire un gonzo, cosa che teme più di un cappottamento. Si vanta infatti di non aver mai preso una multa in vita sua, anche se una volta a dire il vero l’ha presa, ma lui sostiene che quella non conta perché l’autovelox non era segnalato da apposita cartellonistica e poi era nascosto da un veicolo parcheggiato (probabilmente dalle forze dell’ordine, di proposito) e dalle foglie di un albero e di sicuro era tarato male perché lui andava a 50 precisi, se lo ricorda perfettamente.
«Va’ piano, che lì si mettono spesso i vigili» mi dice indicando uno spiazzo vuoto.
«Dici che stanno dentro il cassonetto?» chiedo. Lui non raccoglie.
«Attento alle telecamere» mi dice più avanti, anche se siamo su un tratto di strada deserta in mezzo al niente, senza neanche un albero o un palo della luce. Immagino due militari in mimetica, coperti da rametti e fogliame, acquattati dietro un cespuglio che ci scrutano attraverso binocoli laser. Uno dice: «Anziana automobile in arrivo, signore». E l’altro: «Bene. Pronto a rilevare la velocità, sergente. Questa volta non ci sfugge».
Se poi per sbaglio faccio una rotonda a una velocità appena sopra la sua attuale percezione del pericolo, mi dice: «Ehi, Schumacher».
«Ma sono a 38 all’ora» rispondo.
Lui scuote la testa e dice: «Non siamo al Nürburgring».
Una volta in autostrada, mi informa dello stato del veicolo. Dice che le gomme sono lisce, i freni non frenano, gli ammortizzatori piangono e il motore è quasi andato. Dice che, se supero i novanta orari, rischiamo di restare a piedi o forse l’anziana automobile potrebbe esplodere, praticamente come Speed ma al contrario, e con l’anziano padre al posto di Sandra Bullock.
Gli faccio notare che questa informazione poteva avere una maggiore utilità prima della partenza. Lui dice solo: «Rallenta». Io dico: «Sono a novanta precisi». Lui dice: «Troppo».
Così però sembra di andare davvero pianissimo, ma in fondo mi dico che si tratta solo di poco più di un'ora, poi riavrò la mia macchina e, con essa, la libertà.
Mentre tagliamo i campi della pianura, ogni tanto indica nel paesaggio dei punti autobiografici: «Quel lavoro lì l'ho fatto io» dice indicando un capannone. «In quello stabilimento ci ha lavorato tuo nonno per un mese». «Quel cartello lì è nuovo». «Qui non è cambiato niente». «Qui invece sì». «Lì ci abbiamo mangiato le rane».
Quando arriviamo all’altezza di Voghera, sbuffa e dice: «Ma siamo solo a Voghera?».
«Mi hai chiesto di andare a 90 all'ora…» dico.
Non ribatte, ma è implicito che lui, pur procedendo alla stessa velocità, a Voghera ci sarebbe arrivato prima.
Nel frattempo ci sorpassano tutti, anche gli uccellini. Quando sfreccia una macchina particolarmente veloce che procede in modo vagamente spericolato, l'anziano padre scuote la testa e dice: «Candidato all'obitorio».
Immagino che a lui stia bene guardare il paesaggio fino all’arrivo, ma io raramente sto zitto, perciò provo a far partire una qualche conversazione articolata. Gli parlo di libri, di film, di sport, di esseri umani. Evito attualità e religione, per non farlo agitare. L'anziano padre ascolta tutto. Se parlassi per tre ore, ascolterebbe per tre ore, e il dubbio è che stia in realtà pensando ai fatti propri. Se gli chiedo: «Che ne pensi?», risponde: «È la vita».
Quando usciamo dall'autostrada, si trova in un territorio a lui sconosciuto, perciò “lì c’è una telecamera” diventa “lì potrebbe esserci una telecamera”. Troviamo anche un limite di 30 all’ora causa lavori. Lui fa per aprire bocca e io dico: «No».
Arriviamo finalmente all'autofficina, più vecchi (saggi?) ma vivi. Lo saluto e lo ringrazio. Lui si rimette al posto di guida e mi fa un cenno col capo come a dire: dovere.
Entro, recupero la macchina, esco.
L'anziano padre è ancora lì ad aspettarmi. Accosto, abbasso il finestrino e gli dico: «Seguimi fino all'autostrada, poi però io non vado a 90, eh?».
Lui sorride e dice: «Tranquillo».
Così partiamo, io davanti e lui dietro. Arriviamo al casello, entriamo, io mi porto subito sui 130 e lo distanzio.
Dopo un po' mi chiama l'anziana madre per avere aggiornamenti, visto che l'anziano padre non usa i cellulari quando guida, e anche quando non guida.
«Tuo padre?» mi fa.
«Eh,» le dico, «io non vado a 90, quindi sarà un po' indietro».
«Ma sì,» mi fa lei, «lui pianino pianino torna, non ha problemi».
«Ma no, infatti,» dico, «non è mica rimbambito».
«Forse…» dice l’anziana madre, e ridiamo.
«Dai, tranquilla, per cena magari arriva». Ridiamo ancora.
La saluto e procedo.
Dopo un altro pezzo di strada, mentre vado a 130, all’improvviso scorgo nel retrovisore un missile nero arrivare dalla lunga e poi sverniciarmi come un lampo a sinistra, scuotendomi tutto per lo spostamento d’aria: nella frazione di secondo del suo passaggio, riconosco l’anziana automobile e, dentro, l’anziano padre che mastica la sua caramella, poi diventa un puntino sempre più lontano, fino a scomparire dalla mia vista.