Il colpevole (1457)

Quando c’è un controllo ho sempre paura di essere scoperto, anche se non ho fatto niente. Succede nei negozi, dove per una frazione di secondo trattengo il fiato mentre passo attraverso il sistema antitaccheggio e mi stupisco sempre un po’ se non comincia a suonare, anche quando entro; succede al mio supermercato preferito, dove effettivamente a volte l’allarme parte un po’ a caso e le cassiere, che mi conoscono, mi fanno cenno di andare, e io allora mentre riprendo a spingere la carriola stracolma di sacchi di zafferano, smartphone e zanne di elefante sorrido e dico «Ah, questa tecnologia…»; ma succede soprattutto quando c’è un posto di blocco stradale o al controllo sicurezza negli aeroporti. E, riguardo a questi ultimi due casi, la settimana scorsa penso di aver fatto il pieno.
Ero infatti a Londra, dove vado spesso a comprare il radicchio anche se l’esperienza è a tratti snervante sia per il volo (come dice Barry Sonnenfeld, considero ogni aereo atterrato con successo “un tentativo di suicidio fallito”) sia per i controlli di sicurezza.
La mia paura è che nei miei bagagli trovino qualcosa che non va, che so, un’arma, un ordigno o della droga, anche se non ne faccio uso né la commercio. Il mio unico contatto con delle sostanze stupefacenti è stato a dodici anni, quando ho provato uno spinello.
Ero sul divano con mia nonna Rachele a guardare Colombo e lei ha insistito tanto:
«Mica male questa merda, no?» mi ha detto soffiando una nuvola di fumo e passandomi la canna.
Con la nonna guardavamo sempre anche una trasmissione dove venivano filmati i controlli aeroportuali, facendo a gara a indovinare chi tra i passeggeri appena sbarcati avesse nella pancia gli ovuli con la droga.
«Quello non me la racconta giusta» diceva la nonna, che a indovinare era bravissima. Ma io non ero portato, per me era agghiacciante anche solo l’idea di ingoiare uno di quei cosi, visto che ancora oggi devo farmi waterboarding per mandar giù una compressa grande più di una lenticchia. Tra l’altro l’ipotesi che un ovetto possa rompersi e uccidermi mi spaventerebbe molto più della galera, quindi appena sceso dall’aereo correrei incontro ai poliziotti urlando “Toglietemi gli ovuli!” (Probabilmente non capirebbero e, nel dubbio, mi crivellerebbero di colpi).
Quest’ansia costante è uno dei vari motivi per cui non sono un buon compagno di viaggio, e una qualunque delle mie ex sedicenti fidanzate potrebbe confermare.
Una volta ero all’aeroporto, sempre di Londra – ce n’è solo uno, mi pare –, con la mia fidanzata del tempo, Lucilla. In fila per i controlli, Lucilla fischiettava beata, proprio come una che è in vacanza, io invece ero come al solito molto teso e sudavo come un infiltrato nella malavita in costume da bagno sotto il sole cocente con un microfono dell’FBI appiccicato al petto mentre parla con Tommy Strippapelle.
Quando io e Lucilla siamo stati scagionati, cioè voglio dire quando ci hanno rilasciato, passandomi il dorso della mano sulla fronte ho detto: «Fiuuu! Meno male, Lucy, mi ero già visto dentro!». E lei, aggrottando la fronte: «Ma mi spieghi perché tutte le volte sei così agitato? Se sei un trafficante di droga vorrei saperlo…».
Il peggio però è stato, appunto, la settimana scorsa.
Ai controlli, la mia valigia è finita sul nastro interno, non su quello dove in genere la si prende per poi rimettersi comodamente le mutande in mezzo alla folla prima di andarsene al gate.
Mentre tutti recuperano il proprio bagaglio, io vedo la mia valigia che trotterella sul nastro sbagliato e penso: “Che sfortuna, la mia valigia ha imboccato non si sa come l’altra corsia”.
Dunque mi avvicino con cautela e massimo rispetto a un poliziotto che tra l’altro mi pare identico al cattivo de L’esercito delle dodici scimmie e gli faccio (in inglese): «Mi scusi, la mia valigia è finita – faccio un gesto con la mano come a simulare un piccolo tuffetto accidentale – sull’altro lato del…» e qui mi manca la parola, quindi opto per un generico: «Del coso».
Il poliziotto mi guarda, guarda la mia valigia e poi, con placida supponenza tipicamente anglosassone dice: «Allora verrà perquisita».
“Gesù,” penso, “ci siamo!” e mentre su un maxischermo vedo nonna Rachele che mi dice “è arrivato il momento, Eugenio, ricorda tutto quello che ti ho insegnato”, cerco di sembrare calmo per non destare ulteriori sospetti, anche se i poliziotti aeroportuali sanno capire quando uno è calmo e quando uno invece sta solo cercando di esserlo.

(Il poliziotto inglese mentre fa il test antidroga ai miei effetti personali, già pregustandone la positività.)

Mentre il poliziotto passa l’affarino per rintracciare eventuali residui di droga sui miei vestiti e persino sulle mie siringhe e sul mio bilancino, ho il culo strettissimo.
«Così stretto che non ci passerebbe nemmeno un ovulo di droga» dico all’altro agente accanto a me, pronto con le manette.
”Ma tu non usi droghe e neanche le trasporti!” cerco di ricordare a me stesso per tranquillizzarmi. Però, mentre lui passa l’affarino sui miei effetti personali, penso: “Ma metti il caso, Eugenio, metti il caso… – noi ansiosi mettiamo sempre uno o più casi – che so, magari la donna delle pulizie dell’albergo, dopo aver pulito la stanza, ha aperto la tua valigia e si è messa a farsi delle strisce di coca sui tuoi pullover. Oppure ha nascosto un pacchettino di droga dentro la tasca di un paio dei tuoi jeans”.
”Ma perché l’avrebbe fatto?!” mi chiedo poi, ma so che in realtà tutto è possibile, specie per un ansioso presunto colpevole con una fervida immaginazione catastrofistica quale io innegabilmente sono.
Se non c’è droga, potrebbero comunque trovare un coltello insanguinato, penso.
“E questo, signore?” direbbe il poliziotto tenendo il coltello con la punta delle dita.
E io: “Mai visto prima!”.
“E questo signore?” direbbe l’altro poliziotto tenendo un signore con la punta delle dita.
E io: “Mai visto prima!”.
“Dicono tutti così,” direbbe il poliziotto sorseggiando una tazza di tè inglese, “e sono pronto a scommettere che il coltello combacia con la ferita in quell’addome, in quel corpo, là nel bagno del nostro rispettabilissimo aeroporto. E scommetto pure che anche il sangue combacia. Ha mai visto Fuga di mezzanotte? E Papillon? Lei è in un bel guaio, glielo dico io”.

Alla fine il controllo dà sorprendentemente esito negativo. Mi rilasso per alcuni secondi, prima di agitarmi di nuovo per il volo.
Come si può intuire, però, l’aereo riesce ad atterrare e in men che non si dica sono in autostrada, pronto per arrivare a casa e rilassarmi con il mio infuso al radicchio, quando all’altezza di Casalpusterlengo una pattuglia della polizia mi si mette alle costole con i lampeggianti accesi.
Mi sposto a destra per farla passare, ma si sposta anche lei. Mi sposto ancora più a destra e rallento, e la pattuglia uguale. Alla fine con alcuni colpi di pistola nel lunotto posteriore mi fanno segno di accostare.
Se non altro, penso, la valigia è appena stata controllata, ma prima che possa tirare un sospiro di sollievo mi viene in mente che la macchina è rimasta alcune notti in aeroporto, incustodita sulla pista 6, e io non ho nemmeno aperto il bagagliaio prima di partire, dunque potrebbe esserci di tutto (immagino la donna delle pulizie inglese che nottetempo infila un cadavere nel baule, poi riprende l’aereo e torna a Londra).
Il poliziotto si avvicina, mi fa segno di abbassare il finestrino, io eseguo, lui mi fa segno di abbassare il mio finestrino, non quello del passeggero, io eseguo, poi lui mi scruta un attimo e mi fa: «Vada pure».
Tiro un sospiro di sollievo e riparto. Evidentemente stavano cercando qualche malvivente e io corrispondevo per alcuni dettagli alla descrizione: modello, colore e numero di cacche di uccello dell’automobile, occhiali da vista, bellezza accecante. Dopo un esame ravvicinato, però, il poliziotto si è reso conto che non ero il loro uomo.
Poco dopo essere uscito dall’autostrada, quando ormai sono arrivato, mi ferma una seconda pattuglia, a conferma che non è proprio la mia giornata.
La scena dunque si ripete, un nuovo poliziotto si avvicina ma questa volta dopo avermi esaminato si volta verso il collega e dice: «Ehi, Nicola, mi porti quella segnaletica?» e poi, guardando me: «Per favore, signore, scenda dal veicolo e appoggi le mani al cofano».
Vorrei dire: “Mi scusi, deve esserci un errore” ma è quello che dicono tutti i colpevoli, praticamente è la prova del nove.
«Cercate qualcuno?» chiedo invece senza scendere, anzi mettendo la sicura.
«Sì, Guglielmo Favoretti, il famoso criminale partenopeo, detto O’ Perticone. A proposito, lei quanto è alto?» mi chiede l’agente.
«Prima di rispondere, posso sapere quanto è alto O’ Perticone?» chiedo.
«1.89» mi fa lui.
«1.89, eh?» dico io ingobbendomi. «Ma comunque ecco i miei documenti, guardi lì: mi chiamo in modo completamente diverso».
«Documenti falsi,» dice l’agente, «che ci vuole?». E poi, scorrendo le varie voci: «Però cosa vedo qui? Altezza 1.89».
«Ma mi scusi, agente, ragioni…».
«Sta dicendo che non ragiono?».
«No! Sto solo dicendo: secondo lei se faccio un documento falso metto proprio la stessa altezza di O’ Perticone, ovvero la mia reale altezza?».
«Allora ammette di essere O’ Perticone!».
«Solo nell’esempio!».
«Comunque l’altezza non si può mica contraffare».
«Ma almeno avrei messo 1.90 o 1.88!».
«O’ Perticone è molto furbo,» dice l’agente, «questa è psicologia di secondo o terzo livello, ma noi siamo preparati a individuarla fino al quinto. Ti è andata male, Perticone!”» dice l’agente tirandomi giù a forza dall’automobile e mettendomi le manette. E io, disperato mentre mi trascina via grido: «Maronna mia! Mannaggia o’ suricillo e ‘a pezza ’nfosa!», anche se sono emiliano.
Alla fine, per mia fortuna, interviene l’agente Nicola.
«Ma non lo vedi che questo è solo un povero fesso?» dice al collega.
«Esatto!» dico io.
L’altro agente mi guarda bene, poi si lascia convincere e mi leva le manette.
«Grazie, grazie» dico profondendomi ossequiosamente in inchini mentre indietreggio verso la mia automobile. Per sdebitarmi offro loro un sacco di zafferano e tre zanne di elefante.

Una volta a casa, chiamo Peppe detto ‘a bomba.
«Uè, Pè, so’ arrivato…».
«Ue’ Pertico’, l’hai scanzata!».
«Maro’! Tengo ‘o core arravugliato comme a nu fegatiello…».
«Hai purtato ‘a robba?».
«E certo! So’ venuto pe’ chesto…».
«Si’ nu bravo guaglione, Pertico’».


11.10.25