Piedi (1450)
Colazione con la mia amica Paola, che a un certo punto ha detto: «Mi sono alzata con il piede sbagliato», e allora io ho pensato che la mattina mi alzo sempre con il piede giusto perché ho due piedi giusti, è una grande fortuna che mi è capitata nella vita e ne sono consapevole. Certo, se capita qualche accidente – ed è solo questione di tempo – puoi avere tutti i piedi giusti che vuoi, tanto dal letto in quel caso ci scendi di faccia. Ma quando tutto è normale, intendo, quando tutto è tranquillo, allora il piede è sempre quello giusto. Però le donne con cui mi è capitato nel corso degli anni di cominciare le giornate si alzavano quasi sempre con il piede sbagliato, alcune avevano due piedi sbagliati, alcune addirittura tre. Dico "donne" perché mi sono sempre svegliato con delle donne, in quanto uomo eterosessuale, non per dire qualcosa sulle donne o sui piedi delle donne in generale. E poi nulla vieta che si alzassero sempre con il piede sbagliato perché si svegliavano con il sottoscritto. Ma quello che voglio e che posso dire per quanto riguarda la mia limitatissima esperienza personale è che, nelle relazioni tra le persone, nella morra cinese dei piedi giusti e sbagliati vincono sempre quelli sbagliati: un piede giusto perde contro un piede sbagliato, due piedi giusti perdono contro un piede sbagliato, due piedi giusti perdono anche contro un alluce sbagliato, non serve mica tutto il piede. Poi, più che altro per caso, è da un po' che ho cambiato i piedi con le zampe. Non i miei, dico, anche se avrebbe fatto ridere, ma quelli degli altri. Adesso mi sveglio sempre con una gatta. Anche lei ogni tanto si sveglia con la zampina sbagliata, ma di rado. Oppure con quella giusta, ma alle tre del mattino. Non so se c'è una morale in questa storia. Penso di no.
14.9.25
Uomini! (1449)
Sono in coda alla cassa del supermercato. Davanti a me una donna che imbusta la spesa e, intanto, parla con la cassiera. Parla di un problema di salute. «Svenimenti» dice. Io penso: calo di pressione, problemi cardiaci, stress. «Dolori addominali» dice. Penso: appendicite, aneurisma aortico, emorragie interne.
«L'ho detto a mio marito» dice.
La cassiera ascolta con attenzione, si tiene una mano all'altezza del cuore come a dire: se me ne importasse qualcosa, lo sentirei qui.
Anch'io ascolto con attenzione. Problemi digestivi, penso. Tenia. Disturbi neurologici.
«Mio marito,» dice la donna, «mi ha detto: “Ma va' là, non è niente!”».
La cassiera scuote la testa, poi dice: «Uomini!». Le due donne ridono.
Penso: non uomini ma uomo: quell'uomo lì. Perché, avessi io una moglie, alla "i" di svenimento la prenderei, la imbacuccherei in una barella come quei tizi che si fanno male sulle montagne e deve recuperarli con l’elicottero il soccorso alpino, e la porterei al pronto soccorso (non alpino). Non avrei bisogno di aspettare che mi dicesse «Non mi sento bene»: alla prima mezza smorfia, o anche solo vedendo una sua espressione non del tutto soddisfatta, o anche solo perché un po’ troppo silenziosa, o non abbastanza allegra e ciarliera: barella e via.
Uomini, comunque, dice la cassiera.
Le due donne alzano tutte e quattro le sopracciglia come a dire: non c'è bisogno di aggiungere altro. Come a dire: detto uomini, detto tutto.
«Ehm ehm» dico.
«Uomini!» dice allora la cassiera guardandomi dritto negli occhi. «Puah!» dice sputando per terra.
Io annuisco. Raccolgo il grumo di saliva e glielo porgo.
«Le è caduto questo» le dico soffiando via la polvere dal grumo. «Inavvertitamente» aggiungo. Lei non lo vuole più. Sputa un secondo grumo nel primo grumo.
«Comunque non ci si può fidare…» dico allora per fare comunella, per sentirmi incluso. Degli uomini, intendo. Come delle donne, intendo. Dei bambini come degli anziani. Dei gatti, come dei cani. Dei mercati azionari. Delle banchine cedevoli. Delle offerte imperdibili. Delle terre e dei cieli.
La cassiera scuote la testa. Anche l’altra donna scuote la testa. La cassiera si avvicina al microfono per le comunicazioni ufficiali, preme il tasto per attivarlo e dice: «Uomini…».
Si ode un brusio sparso. Si odono dei buu.
«Posso dire una cosa anch’io al microfono?» chiedo alla cassiera. «A mia difesa» aggiungo.
«No» dice lei, e per sicurezza strappa il microfono dalla base e lo scaglia lontano, colpendo accidentalmente in testa un uomo, il quale poi si accascia dolorante, tamponandosi con un sacchetto di surgelati la ferita da cui sgorga un liquido denso e verde. La pelle è lacerata e un lembo gli penzola davanti al naso: sotto si intravedono occhio e squame di serpente.
Le due donne si danno il cinque. La cassiera prende un nuovo microfono da sotto la cassa e senza neanche bisogno di collegarlo alla corrente elettrica dice: «Uomo a terra! Uomo a terra!». Si sentono applausi ovunque. Dal reparto gastronomia al reparto lampadine. Al reparto vini si stappano molteplici spumanti. L’altoparlante dice: «Informiamo la gentile e dunque va da sé femminile clientela che per festeggiare il ferimento di un uomo abbiamo appena sfornato la pizza ai marshmallow».
Coriandoli, boccoli, fumogeni rosa e gridolini.
Intanto l’uomo ferito cerca di trascinarsi fuori dal supermercato strisciando di pancia sul pavimento.
«Come in Full Metal Jacket» dico alle due donne, osservando la scena.
«Come cosa?» rispondono loro.
«Come in Platoon» dico allargando le braccia.
«Mm?».
«Come in Salvate il soldato Ryan?».
«Ma di cosa va blaterando?» mi chiede la cassiera.
«Sono film di guerra,» dico. «Capolavori immortali del cinema».
«Detesto i film di guerra,» dice lei, «e poi non sono realistici, non ci sono mai soldati donna».
«Ma perché spesso sono ambientati in epoche in cui…».
«Non ci sono!» ripete lei mentre, smanettando con un gamepad, apre e chiude le porte automatiche sull’uomo strisciante, cercando di segarlo in due. Un altro uomo, subito bersagliato da barattoli di crema idratante, arriva in suo aiuto e lo trae in salvo.
«Io odio i film di idraulici,» dice la donna col malanno, «non sono realistici: non ci sono mai idraulici donna».
Io e la cassiera ridiamo, la donna col malanno resta seria.
«E quindi alla fine si è scoperto cos'era il tuo malanno?» le chiede allora la cassiera.
«Sì» dice la donna col malanno, e fa per dirglielo, ma poi mi guarda e dà un’occhiatina alla cassiera come a dire, sottovoce: uomini in ascolto…. Anche la cassiera mi guarda. Poi dice: «Anche gli uomini hanno orecchi, in questo supermercato».
«Ma gli uomini hanno orecchi» obietto.
Le due donne si scambiano un’occhiata e poi scuotono la testa. Quindi la donna col malanno si avvicina alla cassiera, la cassiera a lei, e le bisbiglia qualcosa. La soluzione dell'enigma, penso. Aguzzo l’udito. Sento il battito cardiaco della donna col malanno. Tutto a posto, penso. No patologie cardiache, penso. La donna si accorge che sto origliando. Colpa dello stetoscopio che le ho appoggiato sul mento.
«Lei è un dottore?» mi chiede.
«Sì, in filosofia» dico con orgoglio riponendo lo stetoscopio nel taschino del camice. «L’uomo è ciò che mangia» aggiungo sapientemente con il dito indice sollevato. «E la donna?» mi chiede.
«Come, prego?» chiedo.
«Anche la donna è ciò che mangia?».
«Soprattutto la donna!» le dico. «Uomo stava per essere umano» spiego.
«E perché non ci sta donna, per essere umano?» chiede la donna col malanno.
«Perché uomo deriva da…».
«Senta,» interviene la cassiera, «non ci deve spiegare nulla, la stiamo prendendo in giro».
«Ah, capisco» dico.
«Io detesto anche la filosofia,» dice la donna col malanno, «non ci sono filosofe donne, non è realistica».
«Ci sono, invece» dico.
«Non cerchi di compiacerci» dice la cassiera.
«Ma ci sono».
«Ah sì? Per esempio?».
«Ipazia di Alessandria» dico.
«Lei è ridicolo» mi fa lei.
La donna col malanno dice alla cassiera: «Lascialo perdere… Be', comunque alla fine il malanno era quello che ti ho bisbigliato prima».
La cassiera annuisce, contrita. Poi, commossa, asciugandosi una lacrima dice: «Sono quarantasei euro».
La donna col malanno fa per pagare, la cassiera la ferma con un gesto: «No,» dice, «offre il dottore, qui». E mi indica.
Io porgo la carta e dico: «Ma certo. Con piacere».
La donna col malanno prende le buste, ringrazia la cassiera. Poi guarda me, scuote un’ultima volta la testa e se ne va. La cassiera la osserva andare via, sempre sorridendo. Quando si ricorda di me, torna seria di colpo. “Uomini…” sembra pensare.
Io l'avrei salvata, vorrei dirle. Alla “i” di svenimento. Io non minimizzo. Non dico frasi consolatorie. Non dico “andrà tutto bene” se non ho la certezza matematica che andrà tutto bene. A volte anche se ho la certezza matematica. Stiamo a vedere, dico. Non cantiamo vittoria, dico. Solo alla fine della nostra vita potremo dire se è andata bene o no. Solo in punto di morte si possono trarre le giuste conclusioni.
La cassiera mi guarda come a dire: Uo-mi-ni!
Mi giro per cercare un po' di solidarietà. Dietro di me ci sono solo donne, anche gli uomini. Scuotono tutte il capo. Guardo uno degli uomini e dico: «Ma lei è un uomo!». Tutte le donne presenti si voltano di scatto a guardarlo. Lui scuote la testa, piange: «È una calunnia» dice. «Tipico degli uomini» aggiunge.
Le donne tornano a guardare me con riprovazione.
«La lasci in pace, poverina!» grida qualcuna.
«Mascalzone!» grida un’altra.
La cassiera interviene: «Senta, ci spicciamo? Non è né il luogo né il momento» dice.
«Per cosa?» chiedo.
«Per lei! Per voi!».
«Ma io volevo solo comprare la schiuma da barba» dico.
La cassiera fa una risatina. Anche le donne alle mie spalle fanno una risatina.
«E ti pareva!» dice una.
«Uomini…» dice la cassiera scuotendo la testa di un uomo presa da una scatola sotto il banco. «Mai che comprino gli assorbenti, o i bigodini» dice muovendo le labbra della testa, a mo’ di ventriloqua. «Sempre e solo schiuma da barba» fa dire alla testa, che poi rimette con cura nella scatola. Prima di chiudere il coperchio, le accarezza i capelli.
«È la testa di mio marito» dice poi alle presenti, le quali emettono un “ohh…” di tenerezza.
«Io comunque ho la barba» dico. «E non ho… che so… le mestruazioni».
Qui cala il gelo assoluto. Alcune delle presenti si fanno il segno della croce. La cassiera si rabbuia profondamente.
«Ma che ho detto?» chiedo a un signore arrivato da poco.
«Io sono un distributore automatico di gomme da masticare» dice lui tirandomi addosso dei pacchetti di Vigorsol.
«E comunque ho comprato anche gli assorbenti. Per la mia ex, una volta» dico.
Mi arriva in testa uno shampoo. «Ahi!» dico.
«Ssst!» mi fanno.
La cassiera intanto ha cominciato a passare la mia spesa lanciando gli articoli come frisbee. Mi affretto al fondo della cassa, acchiappo tutto al volo tranne le uova che la cassiera mi tira addosso.
«Imbranati!» grida qualcuna.
«Imbranato» la correggo.
«Non peggiori le cose» dice la cassiera.
Imbusto. Pur essendo un uomo. Metto gli articoli pesanti sotto, quelli delicati sopra, incastro tutto come nel Tetris. Sto attento anche alle differenti temperature: ricreo, nella mia busta compostabile, il microclima di un orto sinergico indipendente, autosufficiente e resiliente, che un giorno potrà lasciare il nido, trovarsi un lavoro, farsi una famiglia di orti sinergici oppure no, fare la cantante folk.
«Sono quarantanove e cinquanta» dice la cassiera.
«Senta,» le dico, «le allungo un deca extra se mi dice cos'aveva la signora… non è per farmi gli affari suoi, eh, è solo per sapere il finale della storia».
Lei mi squadra in silenzio. Io le porgo la banconota.
Scuote la testa. Sospira. Prende la banconota e la mette nel taschino.
«La curiosità è donna» dice.
«Allora?».
«Tenia».
«Lo sapevo!».
Lei mi fa un sorriso forzato, poi mi dà lo scontrino e dice: «Bravo uomo. Ora però credo sia meglio che se ne vada» dice facendo un cenno all’assembramento di donne lì accanto, tutte impegnate a creare armi coi bastoni dei mochi, e ordigni esplosivi con bottiglie riempite di candeggina, bicarbonato e peperoncino.
«Sì, credo anch’io» dico e, mentre noto alcune donne caricare un fustino con spilli, forbicine e zafferano, scavalco il corpo dell’uomo a terra e me la svigno.
«L'ho detto a mio marito» dice.
La cassiera ascolta con attenzione, si tiene una mano all'altezza del cuore come a dire: se me ne importasse qualcosa, lo sentirei qui.
Anch'io ascolto con attenzione. Problemi digestivi, penso. Tenia. Disturbi neurologici.
«Mio marito,» dice la donna, «mi ha detto: “Ma va' là, non è niente!”».
La cassiera scuote la testa, poi dice: «Uomini!». Le due donne ridono.
Penso: non uomini ma uomo: quell'uomo lì. Perché, avessi io una moglie, alla "i" di svenimento la prenderei, la imbacuccherei in una barella come quei tizi che si fanno male sulle montagne e deve recuperarli con l’elicottero il soccorso alpino, e la porterei al pronto soccorso (non alpino). Non avrei bisogno di aspettare che mi dicesse «Non mi sento bene»: alla prima mezza smorfia, o anche solo vedendo una sua espressione non del tutto soddisfatta, o anche solo perché un po’ troppo silenziosa, o non abbastanza allegra e ciarliera: barella e via.
Uomini, comunque, dice la cassiera.
Le due donne alzano tutte e quattro le sopracciglia come a dire: non c'è bisogno di aggiungere altro. Come a dire: detto uomini, detto tutto.
«Ehm ehm» dico.
«Uomini!» dice allora la cassiera guardandomi dritto negli occhi. «Puah!» dice sputando per terra.
Io annuisco. Raccolgo il grumo di saliva e glielo porgo.
«Le è caduto questo» le dico soffiando via la polvere dal grumo. «Inavvertitamente» aggiungo. Lei non lo vuole più. Sputa un secondo grumo nel primo grumo.
«Comunque non ci si può fidare…» dico allora per fare comunella, per sentirmi incluso. Degli uomini, intendo. Come delle donne, intendo. Dei bambini come degli anziani. Dei gatti, come dei cani. Dei mercati azionari. Delle banchine cedevoli. Delle offerte imperdibili. Delle terre e dei cieli.
La cassiera scuote la testa. Anche l’altra donna scuote la testa. La cassiera si avvicina al microfono per le comunicazioni ufficiali, preme il tasto per attivarlo e dice: «Uomini…».
Si ode un brusio sparso. Si odono dei buu.
«Posso dire una cosa anch’io al microfono?» chiedo alla cassiera. «A mia difesa» aggiungo.
«No» dice lei, e per sicurezza strappa il microfono dalla base e lo scaglia lontano, colpendo accidentalmente in testa un uomo, il quale poi si accascia dolorante, tamponandosi con un sacchetto di surgelati la ferita da cui sgorga un liquido denso e verde. La pelle è lacerata e un lembo gli penzola davanti al naso: sotto si intravedono occhio e squame di serpente.
Le due donne si danno il cinque. La cassiera prende un nuovo microfono da sotto la cassa e senza neanche bisogno di collegarlo alla corrente elettrica dice: «Uomo a terra! Uomo a terra!». Si sentono applausi ovunque. Dal reparto gastronomia al reparto lampadine. Al reparto vini si stappano molteplici spumanti. L’altoparlante dice: «Informiamo la gentile e dunque va da sé femminile clientela che per festeggiare il ferimento di un uomo abbiamo appena sfornato la pizza ai marshmallow».
Coriandoli, boccoli, fumogeni rosa e gridolini.
Intanto l’uomo ferito cerca di trascinarsi fuori dal supermercato strisciando di pancia sul pavimento.
«Come in Full Metal Jacket» dico alle due donne, osservando la scena.
«Come cosa?» rispondono loro.
«Come in Platoon» dico allargando le braccia.
«Mm?».
«Come in Salvate il soldato Ryan?».
«Ma di cosa va blaterando?» mi chiede la cassiera.
«Sono film di guerra,» dico. «Capolavori immortali del cinema».
«Detesto i film di guerra,» dice lei, «e poi non sono realistici, non ci sono mai soldati donna».
«Ma perché spesso sono ambientati in epoche in cui…».
«Non ci sono!» ripete lei mentre, smanettando con un gamepad, apre e chiude le porte automatiche sull’uomo strisciante, cercando di segarlo in due. Un altro uomo, subito bersagliato da barattoli di crema idratante, arriva in suo aiuto e lo trae in salvo.
«Io odio i film di idraulici,» dice la donna col malanno, «non sono realistici: non ci sono mai idraulici donna».
Io e la cassiera ridiamo, la donna col malanno resta seria.
«E quindi alla fine si è scoperto cos'era il tuo malanno?» le chiede allora la cassiera.
«Sì» dice la donna col malanno, e fa per dirglielo, ma poi mi guarda e dà un’occhiatina alla cassiera come a dire, sottovoce: uomini in ascolto…. Anche la cassiera mi guarda. Poi dice: «Anche gli uomini hanno orecchi, in questo supermercato».
«Ma gli uomini hanno orecchi» obietto.
Le due donne si scambiano un’occhiata e poi scuotono la testa. Quindi la donna col malanno si avvicina alla cassiera, la cassiera a lei, e le bisbiglia qualcosa. La soluzione dell'enigma, penso. Aguzzo l’udito. Sento il battito cardiaco della donna col malanno. Tutto a posto, penso. No patologie cardiache, penso. La donna si accorge che sto origliando. Colpa dello stetoscopio che le ho appoggiato sul mento.
«Lei è un dottore?» mi chiede.
«Sì, in filosofia» dico con orgoglio riponendo lo stetoscopio nel taschino del camice. «L’uomo è ciò che mangia» aggiungo sapientemente con il dito indice sollevato. «E la donna?» mi chiede.
«Come, prego?» chiedo.
«Anche la donna è ciò che mangia?».
«Soprattutto la donna!» le dico. «Uomo stava per essere umano» spiego.
«E perché non ci sta donna, per essere umano?» chiede la donna col malanno.
«Perché uomo deriva da…».
«Senta,» interviene la cassiera, «non ci deve spiegare nulla, la stiamo prendendo in giro».
«Ah, capisco» dico.
«Io detesto anche la filosofia,» dice la donna col malanno, «non ci sono filosofe donne, non è realistica».
«Ci sono, invece» dico.
«Non cerchi di compiacerci» dice la cassiera.
«Ma ci sono».
«Ah sì? Per esempio?».
«Ipazia di Alessandria» dico.
«Lei è ridicolo» mi fa lei.
La donna col malanno dice alla cassiera: «Lascialo perdere… Be', comunque alla fine il malanno era quello che ti ho bisbigliato prima».
La cassiera annuisce, contrita. Poi, commossa, asciugandosi una lacrima dice: «Sono quarantasei euro».
La donna col malanno fa per pagare, la cassiera la ferma con un gesto: «No,» dice, «offre il dottore, qui». E mi indica.
Io porgo la carta e dico: «Ma certo. Con piacere».
La donna col malanno prende le buste, ringrazia la cassiera. Poi guarda me, scuote un’ultima volta la testa e se ne va. La cassiera la osserva andare via, sempre sorridendo. Quando si ricorda di me, torna seria di colpo. “Uomini…” sembra pensare.
Io l'avrei salvata, vorrei dirle. Alla “i” di svenimento. Io non minimizzo. Non dico frasi consolatorie. Non dico “andrà tutto bene” se non ho la certezza matematica che andrà tutto bene. A volte anche se ho la certezza matematica. Stiamo a vedere, dico. Non cantiamo vittoria, dico. Solo alla fine della nostra vita potremo dire se è andata bene o no. Solo in punto di morte si possono trarre le giuste conclusioni.
La cassiera mi guarda come a dire: Uo-mi-ni!
Mi giro per cercare un po' di solidarietà. Dietro di me ci sono solo donne, anche gli uomini. Scuotono tutte il capo. Guardo uno degli uomini e dico: «Ma lei è un uomo!». Tutte le donne presenti si voltano di scatto a guardarlo. Lui scuote la testa, piange: «È una calunnia» dice. «Tipico degli uomini» aggiunge.
Le donne tornano a guardare me con riprovazione.
«La lasci in pace, poverina!» grida qualcuna.
«Mascalzone!» grida un’altra.
La cassiera interviene: «Senta, ci spicciamo? Non è né il luogo né il momento» dice.
«Per cosa?» chiedo.
«Per lei! Per voi!».
«Ma io volevo solo comprare la schiuma da barba» dico.
La cassiera fa una risatina. Anche le donne alle mie spalle fanno una risatina.
«E ti pareva!» dice una.
«Uomini…» dice la cassiera scuotendo la testa di un uomo presa da una scatola sotto il banco. «Mai che comprino gli assorbenti, o i bigodini» dice muovendo le labbra della testa, a mo’ di ventriloqua. «Sempre e solo schiuma da barba» fa dire alla testa, che poi rimette con cura nella scatola. Prima di chiudere il coperchio, le accarezza i capelli.
«È la testa di mio marito» dice poi alle presenti, le quali emettono un “ohh…” di tenerezza.
«Io comunque ho la barba» dico. «E non ho… che so… le mestruazioni».
Qui cala il gelo assoluto. Alcune delle presenti si fanno il segno della croce. La cassiera si rabbuia profondamente.
«Ma che ho detto?» chiedo a un signore arrivato da poco.
«Io sono un distributore automatico di gomme da masticare» dice lui tirandomi addosso dei pacchetti di Vigorsol.
«E comunque ho comprato anche gli assorbenti. Per la mia ex, una volta» dico.
Mi arriva in testa uno shampoo. «Ahi!» dico.
«Ssst!» mi fanno.
La cassiera intanto ha cominciato a passare la mia spesa lanciando gli articoli come frisbee. Mi affretto al fondo della cassa, acchiappo tutto al volo tranne le uova che la cassiera mi tira addosso.
«Imbranati!» grida qualcuna.
«Imbranato» la correggo.
«Non peggiori le cose» dice la cassiera.
Imbusto. Pur essendo un uomo. Metto gli articoli pesanti sotto, quelli delicati sopra, incastro tutto come nel Tetris. Sto attento anche alle differenti temperature: ricreo, nella mia busta compostabile, il microclima di un orto sinergico indipendente, autosufficiente e resiliente, che un giorno potrà lasciare il nido, trovarsi un lavoro, farsi una famiglia di orti sinergici oppure no, fare la cantante folk.
«Sono quarantanove e cinquanta» dice la cassiera.
«Senta,» le dico, «le allungo un deca extra se mi dice cos'aveva la signora… non è per farmi gli affari suoi, eh, è solo per sapere il finale della storia».
Lei mi squadra in silenzio. Io le porgo la banconota.
Scuote la testa. Sospira. Prende la banconota e la mette nel taschino.
«La curiosità è donna» dice.
«Allora?».
«Tenia».
«Lo sapevo!».
Lei mi fa un sorriso forzato, poi mi dà lo scontrino e dice: «Bravo uomo. Ora però credo sia meglio che se ne vada» dice facendo un cenno all’assembramento di donne lì accanto, tutte impegnate a creare armi coi bastoni dei mochi, e ordigni esplosivi con bottiglie riempite di candeggina, bicarbonato e peperoncino.
«Sì, credo anch’io» dico e, mentre noto alcune donne caricare un fustino con spilli, forbicine e zafferano, scavalco il corpo dell’uomo a terra e me la svigno.
6.9.25
Breaking news (1448)
Stampa svedese: "Bjorn Borg ha un tumore alla prostata".
Bjorn Borg (sfogliando il giornale a colazione): «Cosa?!».
Bjorn Borg (sfogliando il giornale a colazione): «Cosa?!».
5.9.25
Carla San (1447)
A pranzo con la mia amica Paola, le dico: «Sai, ho elaborato un metodo per essere più equilibrati: quando esprimi un giudizio molto severo su qualcosa, prova a immaginare di esprimerlo in presenza di chi l'ha fatto, e vedrai come le tue parole si ammorbidiranno! Per esempio leggo un libro e penso: "Che merda! È il libro più insulso e noioso che abbia mai letto, mi ha rubato ore di vita!". Ma se immagino di avere davanti a me l'autore, non direi così, direi invece: "Intanto complimenti per la pubblicazione, non è mai facile. Per quanto riguarda il testo, devo ammettere che non mi ha agganciato, probabilmente non è un tipo di scrittura adatto a me, ho fatto un po' fatica a seguire la storia, o forse non era il momento giusto per leggerlo". Penso che confrontare le due versioni sia un possibile esercizio di obiettività». Paola sembra entusiasta: «Sì, per esempio questa bistecca,» dice, «è una suola di scarpa, chi l'ha fatta è un incapace e vorrei costringerlo a mangiare una cassetta di pantofole MA» dice alzando un dito, «se l'avessi davanti gli direi: "La bistecca poteva forse essere un pochino più tenera?"». «Esatto, hai centrato il punto» le dico, e ridiamo soddisfatti.
Un paio di giorni dopo, facciamo l'aperitivo con Carla al Cerveza. Il cameriere ci porta i cocktail, Carla assaggia il suo e immediatamente risputa tutto nel bicchiere. «Che c'è?» le chiedo, divertito. «C'è che fa schifo» dice Carla pulendosi la bocca con il tovagliolino. Allora Paola alza il suo solito dito e le dice: «Vedi, in realtà potresti usare un metodo: immagina di avere davanti chi l'ha fatto. Sceglieresti le stesse parole? Non credo». Mentre Carla sta scrutando Paola pensando se sia il caso di risponderle, arriva Federico, il barista, e le dice: «Ciao Carla, scusa, non ho potuto fare a meno di vedere che hai sputato il cocktail. C'è qualcosa che non va?». Paola guarda Carla come il maestro Myagi guardava Daniel in Karate Kid prima del colpo della gru, Carla le sorride, poi dice a Federico: «Sì, Fede, in effetti c'è qualcosa che non va: il tuo cocktail fa vomitare, mi ha ricordato quella volta che per errore ho bevuto del fertilizzante a casa dei miei nonni, spero sinceramente che tu abbia cercato di avvelenarmi, altrimenti penso che dovrebbero tagliarti le mani e appendertele al collo con un cartello che dice "Non so fare i cocktail"». Mentre Federico cerca di elaborare quanto appena sentito, Carla guarda Paola e, sorridendo, le dice: «Come sono andata?».
Un paio di giorni dopo, facciamo l'aperitivo con Carla al Cerveza. Il cameriere ci porta i cocktail, Carla assaggia il suo e immediatamente risputa tutto nel bicchiere. «Che c'è?» le chiedo, divertito. «C'è che fa schifo» dice Carla pulendosi la bocca con il tovagliolino. Allora Paola alza il suo solito dito e le dice: «Vedi, in realtà potresti usare un metodo: immagina di avere davanti chi l'ha fatto. Sceglieresti le stesse parole? Non credo». Mentre Carla sta scrutando Paola pensando se sia il caso di risponderle, arriva Federico, il barista, e le dice: «Ciao Carla, scusa, non ho potuto fare a meno di vedere che hai sputato il cocktail. C'è qualcosa che non va?». Paola guarda Carla come il maestro Myagi guardava Daniel in Karate Kid prima del colpo della gru, Carla le sorride, poi dice a Federico: «Sì, Fede, in effetti c'è qualcosa che non va: il tuo cocktail fa vomitare, mi ha ricordato quella volta che per errore ho bevuto del fertilizzante a casa dei miei nonni, spero sinceramente che tu abbia cercato di avvelenarmi, altrimenti penso che dovrebbero tagliarti le mani e appendertele al collo con un cartello che dice "Non so fare i cocktail"». Mentre Federico cerca di elaborare quanto appena sentito, Carla guarda Paola e, sorridendo, le dice: «Come sono andata?».
2.9.25
Il prelievo (1446)
Sabato scorso qui a San Paco Llorente si è tenuta una gara valida per la 234esima giornata del campionato cittadino di Stordimento, sport praticato con gioia da tutta la popolazione sanpacollorentese, nessuno escluso.
Per questa sessione i partecipanti erano cinque: Joey Baruffa, rispettato filosofo e scacchista; il medico di famiglia del signor Baruffa, il Dottor Paraurti; il poliziotto privato Massimo; l'impiegata Lucia e l'infermiera Rosa.
Non appena la gara comincia, il dottor Paraurti sfrutta il vantaggio del tratto e si porta in testa compilando a memoria la ricetta per il Baruffa intestandola però non si sa perché a tale Gino Teverini, residente in via Roma 14, nato a San Paco Llorente il 13 ottobre del 1930.
Pronta la reazione del Baruffa che in un baleno affianca il medico capolista intascando la ricetta senza controllare che i dati inseriti siano corretti, sicuro che tutto andrà bene poiché, si sa, nella vita tutto va sempre e solo bene. Il dottor Paraurti potrebbe aver scritto: amputazione gambe; retto-gastroscopia (in quest'ordine); soppressione. Il Baruffa andrebbe incontro al proprio destino a vele spiegate, sospinto dall’ottimistico buonumore che da sempre lo contraddistingue, predisponendolo così alle più insolite disavventure.
Arrivato al Centro Prelievi dell'Ospedale Maggiore – non che ve ne sia uno minore – di San Paco, il Baruffa viene tosto intercettato dal poliziotto Massimo, il quale pretende di esaminare al sensore (gli occhi) la prenotazione del cosiddetto Saltacoda.
Il sabato, infatti, l'accesso alla struttura è consentito solamente a chi detiene la suddetta prenotazione, che si può effettuare esclusivamente online, con riscontro immediato via e-mail dopo aver dimostrato a un robot di non essere un robot (sebbene non si capisca che genere di prelievo farebbe poi un robot).
Nonostante ciò, numerosi sanpacollorentesi, sempre impegnati a guadagnare punti per la classifica generale di Stordimento, si presentano al Centro Prelievi in una di queste tre condizioni: sprovvisti di prenotazione; muniti di riscontro cartaceo (inutile) e sprovvisti di cellulare (che in tutti gli altri momenti della loro vita tengono costantemente in mano, anche quando dormono o si fanno il bidè); pensando di essere alla Coop e chiedendo all’infermiera, al loro turno, un etto di coppa.
Il poliziotto Massimo ha il compito di mortificarli prima, respingerli poi, il tutto con la maggior maleducazione possibile, a fini pedagogici ma anche, diciamolo, un po’ edonistici. I più irriducibili vengono tramortiti con ramanzine e poi accatastati in una montagnola sul retro dell’edificio, accanto al reparto trapianti.
Prima del poliziotto Massimo, tale compito era affidato al signor Giacomo, mite anziano civile pelle e ossa al quale non veniva riconosciuta alcuna autorità e che veniva dunque scansato malamente da chiunque, bambini e cani randagi compresi, inondando così il Centro Prelievi di persone, animali e robot che non ne avevano titolo, creando uno stato di parapiglia permanente che amplificava il già notevole stato confusionale di tutti.
Ma con l'avvicendamento e il conseguente subentro del poliziotto Massimo, tutto questo è solo un ricordo, poiché il poliziotto Massimo è attento e inflessibile. Va da sé che il Sabato, giorno in cui possono accedere alla struttura soltanto i prenotati al Saltacoda, non vi è una coda da saltare, eccetto la coda del Saltacoda stesso, che però non si può saltare, non esistendo (ancora) un Saltasaltacoda. Questi i pensieri del Baruffa mentre raggiunge la struttura.
«Ce l'hai la prenotazione?» chiede al Baruffa il poliziotto Massimo, cogliendolo alle spalle. Il Baruffa si volta e lo vede: divisa, berretto, occhiali da sole tipo Chips, sorta di manganello (una rivista arrotolata) e fondina con brioche della macchinetta, gusto albicocca.
«Ce… certo» balbetta il Baruffa mostrando al poliziotto Massimo il cellulare.
Il poliziotto Massimo sembra deluso. «Mm,» dice dopo una breve occhiata al display, «puoi andare».
Il poliziotto Massimo totalizza in questo modo pochissimi punti e resta perciò relegato al fondo della classifica parziale. Uno penserebbe che tanta inflessibilità dovrebbe garantirgli uno zero tondo, ma secondo i giudici di gara ci vuole comunque un certo grado di stordimento per interpretare il ruolo del poliziotto del Centro Prelievi dell’Ospedale di San Paco come se fossi un marine che sorveglia il Pentagono.
Una volta che il Baruffa ha guadagnato la sala d’aspetto, si entra nel vivo della gara.
Di fronte ai punti già accumulati dal dottor Paraurti e dal Baruffa stesso, non vuole essere da meno l'impiegata Lucia, la quale osserva il Baruffa mentre questi le consegna la ricetta, ricetta che subito Lucia registra nel calcolatore elettronico, apponendo poi timbri e timbrini, firme e firmette, allegando scontrini, tagliandi e riscontri, rispondendo più volte “Sì!” alla domanda del (perplesso) calcolatore “Ma sei proprio sicura, Lucia?!”, facendo così pagare il ticket al signor Baruffa, e tutto senza battere ciglio dinnanzi all’eccellente stato di forma di questo splendido novantacinquenne.
Il Baruffa, dal canto suo, fa un ulteriore piccolo balzo in avanti, superando in questo modo sia l'impiegata Lucia sia il dottor Paraurti, pagando, invece che in contanti, che pure avrebbe, col Bancomat, in modo da rendere il più complicato e tortuoso possibile un eventuale processo di restituzione del denaro nel caso che, la butto lì, qualcosa, non si sa come, alla fine nella vita vada effettivamente male.
A quel punto l'unica possibilità di sottrarre il primo posto al Baruffa sembra essere nelle mani dell'infermiera Rosa, che lo accoglie con un sorriso al Box 2, lo fa accomodare in poltrona al fine di effettuare il prelievo, si fa consegnare la ricetta, la esamina, poi guarda il Baruffa, si volta verso la collega e dice: «Silvia, questo ragazzo – “se non ci si aiuta tra noi over quaranta…” pensa il Baruffa, sorridendo – è del 1930».
«Complimenti!» dice la collega Silvia dopo aver dato un’occhiata al soggetto, tornando poi a bucherellare le braccia della gente.
L’infermiera Rosa prende allora per mano il Baruffa, gli dà un lecca-lecca e lo riaccompagna allo sportello, dove dà un lecca-lecca anche all’impiegata Lucia e ne infila uno nella tasca dei pantaloni del Baruffa dicendogli: «Questo è per il tuo dottore, non perderlo».
Il Baruffa, già intento a lecca-leccare il suo lecca-lecca e completamente obnubilato dalla soave gradevolezza della sfera zuccherina, annuisce ancor prima che l’infermiera Rosa abbia terminato la frase. Nella sua testa, come sempre, solo: ruscelli, nuvole, melodie e farfalle.
L’infermiera Rosa lascia il Baruffa nelle mani dell’impiegata Lucia, quindi in pessime mani, suggerendo di annullare la pratica, poi se la squaglia. Totalizza zero punti, attestandosi come fanalino di coda.
Ai microfoni di un giornalista del Periodico Llorentese, in serata, dichiarerà di non essere al meglio della forma in questo periodo della stagione a causa di un sonno insolitamente ristoratore, e che la prossima volta non si lascerà sfuggire così tante occasioni per mettere a segno preziosi Punti Stordimento e guadagnare posizioni in classifica generale. Ricorderà poi che una sua zia, anni fa, vinse una Giornata del Campionato di Stordimento tamponando l’auto dei Carabinieri, regolarmente parcheggiata a bordo strada, con un Carabiniere a bordo, e questo evento ancora oggi viene ricordato in famiglia con un certo orgoglio.
Tornando alla gara, l’impiegata Lucia, rimasta sola con il Baruffa, potrebbe scavalcarlo in classifica e andare definitivamente in testa, e ci prova infatti preparando in fretta e furia una raffazzonata documentazione relativa a una fantomatica procedura di trentasei minuziosi passaggi, a suo avviso necessari per ottenere il rimborso. Il Baruffa ascolta solo tre dei suddetti trentasei passaggi, del resto quasi certamente sbagliati, felice per il fatto che nessuno gli bucherà il braccio, almeno non oggi, anche se probabilmente succederà domani, ma “Domani soffierà il vento di domani”, ha letto in un libro, e tanto gli basta.
«Ha capito cosa deve fare?» chiede l’impiegata Lucia in un ultimo disperato tentativo di far seguire al Baruffa la procedura (fallace) allestita in extremis. Il Baruffa si ridesta per un attimo dal suo dormiveglia e si rende conto dell'imminente pericolo: essere detronizzato all’ultimo istante dalla scaltra inseguitrice. Tuttavia non è difficile per un giocatore del suo calibro eludere quest’ultimo tentativo di strappargli il primato: «Sì» dice pensando “no”, e la documentazione è così destinata a sonnecchiare per sempre nel cruscotto della sua automobile.
Scatta a quel punto sul tabellone il numero del paziente successivo e la gara si conclude così con la brillante vittoria del Baruffa, il quale poi sportivamente invita l’impiegata Lucia, l’infermiera Rosa, la collega Silvia e i pazienti presenti in sala d’aspetto, gli acciaccati, gli azzoppati, gli anemici, i malaticci, i cardiopatici e i vecchierelli a recarsi tutti al civico 14 di via Roma, a casa del signor Gino Teverini, al fine di festeggiare insieme la vittoria e, visto che ci sono e che ormai è pagato, fargli pure un bel prelievo.
Per questa sessione i partecipanti erano cinque: Joey Baruffa, rispettato filosofo e scacchista; il medico di famiglia del signor Baruffa, il Dottor Paraurti; il poliziotto privato Massimo; l'impiegata Lucia e l'infermiera Rosa.
Non appena la gara comincia, il dottor Paraurti sfrutta il vantaggio del tratto e si porta in testa compilando a memoria la ricetta per il Baruffa intestandola però non si sa perché a tale Gino Teverini, residente in via Roma 14, nato a San Paco Llorente il 13 ottobre del 1930.
Pronta la reazione del Baruffa che in un baleno affianca il medico capolista intascando la ricetta senza controllare che i dati inseriti siano corretti, sicuro che tutto andrà bene poiché, si sa, nella vita tutto va sempre e solo bene. Il dottor Paraurti potrebbe aver scritto: amputazione gambe; retto-gastroscopia (in quest'ordine); soppressione. Il Baruffa andrebbe incontro al proprio destino a vele spiegate, sospinto dall’ottimistico buonumore che da sempre lo contraddistingue, predisponendolo così alle più insolite disavventure.
Arrivato al Centro Prelievi dell'Ospedale Maggiore – non che ve ne sia uno minore – di San Paco, il Baruffa viene tosto intercettato dal poliziotto Massimo, il quale pretende di esaminare al sensore (gli occhi) la prenotazione del cosiddetto Saltacoda.
Il sabato, infatti, l'accesso alla struttura è consentito solamente a chi detiene la suddetta prenotazione, che si può effettuare esclusivamente online, con riscontro immediato via e-mail dopo aver dimostrato a un robot di non essere un robot (sebbene non si capisca che genere di prelievo farebbe poi un robot).
Nonostante ciò, numerosi sanpacollorentesi, sempre impegnati a guadagnare punti per la classifica generale di Stordimento, si presentano al Centro Prelievi in una di queste tre condizioni: sprovvisti di prenotazione; muniti di riscontro cartaceo (inutile) e sprovvisti di cellulare (che in tutti gli altri momenti della loro vita tengono costantemente in mano, anche quando dormono o si fanno il bidè); pensando di essere alla Coop e chiedendo all’infermiera, al loro turno, un etto di coppa.
Il poliziotto Massimo ha il compito di mortificarli prima, respingerli poi, il tutto con la maggior maleducazione possibile, a fini pedagogici ma anche, diciamolo, un po’ edonistici. I più irriducibili vengono tramortiti con ramanzine e poi accatastati in una montagnola sul retro dell’edificio, accanto al reparto trapianti.
Prima del poliziotto Massimo, tale compito era affidato al signor Giacomo, mite anziano civile pelle e ossa al quale non veniva riconosciuta alcuna autorità e che veniva dunque scansato malamente da chiunque, bambini e cani randagi compresi, inondando così il Centro Prelievi di persone, animali e robot che non ne avevano titolo, creando uno stato di parapiglia permanente che amplificava il già notevole stato confusionale di tutti.
Ma con l'avvicendamento e il conseguente subentro del poliziotto Massimo, tutto questo è solo un ricordo, poiché il poliziotto Massimo è attento e inflessibile. Va da sé che il Sabato, giorno in cui possono accedere alla struttura soltanto i prenotati al Saltacoda, non vi è una coda da saltare, eccetto la coda del Saltacoda stesso, che però non si può saltare, non esistendo (ancora) un Saltasaltacoda. Questi i pensieri del Baruffa mentre raggiunge la struttura.
«Ce l'hai la prenotazione?» chiede al Baruffa il poliziotto Massimo, cogliendolo alle spalle. Il Baruffa si volta e lo vede: divisa, berretto, occhiali da sole tipo Chips, sorta di manganello (una rivista arrotolata) e fondina con brioche della macchinetta, gusto albicocca.
«Ce… certo» balbetta il Baruffa mostrando al poliziotto Massimo il cellulare.
Il poliziotto Massimo sembra deluso. «Mm,» dice dopo una breve occhiata al display, «puoi andare».
Il poliziotto Massimo totalizza in questo modo pochissimi punti e resta perciò relegato al fondo della classifica parziale. Uno penserebbe che tanta inflessibilità dovrebbe garantirgli uno zero tondo, ma secondo i giudici di gara ci vuole comunque un certo grado di stordimento per interpretare il ruolo del poliziotto del Centro Prelievi dell’Ospedale di San Paco come se fossi un marine che sorveglia il Pentagono.
Una volta che il Baruffa ha guadagnato la sala d’aspetto, si entra nel vivo della gara.
Di fronte ai punti già accumulati dal dottor Paraurti e dal Baruffa stesso, non vuole essere da meno l'impiegata Lucia, la quale osserva il Baruffa mentre questi le consegna la ricetta, ricetta che subito Lucia registra nel calcolatore elettronico, apponendo poi timbri e timbrini, firme e firmette, allegando scontrini, tagliandi e riscontri, rispondendo più volte “Sì!” alla domanda del (perplesso) calcolatore “Ma sei proprio sicura, Lucia?!”, facendo così pagare il ticket al signor Baruffa, e tutto senza battere ciglio dinnanzi all’eccellente stato di forma di questo splendido novantacinquenne.
Il Baruffa, dal canto suo, fa un ulteriore piccolo balzo in avanti, superando in questo modo sia l'impiegata Lucia sia il dottor Paraurti, pagando, invece che in contanti, che pure avrebbe, col Bancomat, in modo da rendere il più complicato e tortuoso possibile un eventuale processo di restituzione del denaro nel caso che, la butto lì, qualcosa, non si sa come, alla fine nella vita vada effettivamente male.
A quel punto l'unica possibilità di sottrarre il primo posto al Baruffa sembra essere nelle mani dell'infermiera Rosa, che lo accoglie con un sorriso al Box 2, lo fa accomodare in poltrona al fine di effettuare il prelievo, si fa consegnare la ricetta, la esamina, poi guarda il Baruffa, si volta verso la collega e dice: «Silvia, questo ragazzo – “se non ci si aiuta tra noi over quaranta…” pensa il Baruffa, sorridendo – è del 1930».
«Complimenti!» dice la collega Silvia dopo aver dato un’occhiata al soggetto, tornando poi a bucherellare le braccia della gente.
L’infermiera Rosa prende allora per mano il Baruffa, gli dà un lecca-lecca e lo riaccompagna allo sportello, dove dà un lecca-lecca anche all’impiegata Lucia e ne infila uno nella tasca dei pantaloni del Baruffa dicendogli: «Questo è per il tuo dottore, non perderlo».
Il Baruffa, già intento a lecca-leccare il suo lecca-lecca e completamente obnubilato dalla soave gradevolezza della sfera zuccherina, annuisce ancor prima che l’infermiera Rosa abbia terminato la frase. Nella sua testa, come sempre, solo: ruscelli, nuvole, melodie e farfalle.
L’infermiera Rosa lascia il Baruffa nelle mani dell’impiegata Lucia, quindi in pessime mani, suggerendo di annullare la pratica, poi se la squaglia. Totalizza zero punti, attestandosi come fanalino di coda.
Ai microfoni di un giornalista del Periodico Llorentese, in serata, dichiarerà di non essere al meglio della forma in questo periodo della stagione a causa di un sonno insolitamente ristoratore, e che la prossima volta non si lascerà sfuggire così tante occasioni per mettere a segno preziosi Punti Stordimento e guadagnare posizioni in classifica generale. Ricorderà poi che una sua zia, anni fa, vinse una Giornata del Campionato di Stordimento tamponando l’auto dei Carabinieri, regolarmente parcheggiata a bordo strada, con un Carabiniere a bordo, e questo evento ancora oggi viene ricordato in famiglia con un certo orgoglio.
Tornando alla gara, l’impiegata Lucia, rimasta sola con il Baruffa, potrebbe scavalcarlo in classifica e andare definitivamente in testa, e ci prova infatti preparando in fretta e furia una raffazzonata documentazione relativa a una fantomatica procedura di trentasei minuziosi passaggi, a suo avviso necessari per ottenere il rimborso. Il Baruffa ascolta solo tre dei suddetti trentasei passaggi, del resto quasi certamente sbagliati, felice per il fatto che nessuno gli bucherà il braccio, almeno non oggi, anche se probabilmente succederà domani, ma “Domani soffierà il vento di domani”, ha letto in un libro, e tanto gli basta.
«Ha capito cosa deve fare?» chiede l’impiegata Lucia in un ultimo disperato tentativo di far seguire al Baruffa la procedura (fallace) allestita in extremis. Il Baruffa si ridesta per un attimo dal suo dormiveglia e si rende conto dell'imminente pericolo: essere detronizzato all’ultimo istante dalla scaltra inseguitrice. Tuttavia non è difficile per un giocatore del suo calibro eludere quest’ultimo tentativo di strappargli il primato: «Sì» dice pensando “no”, e la documentazione è così destinata a sonnecchiare per sempre nel cruscotto della sua automobile.
Scatta a quel punto sul tabellone il numero del paziente successivo e la gara si conclude così con la brillante vittoria del Baruffa, il quale poi sportivamente invita l’impiegata Lucia, l’infermiera Rosa, la collega Silvia e i pazienti presenti in sala d’aspetto, gli acciaccati, gli azzoppati, gli anemici, i malaticci, i cardiopatici e i vecchierelli a recarsi tutti al civico 14 di via Roma, a casa del signor Gino Teverini, al fine di festeggiare insieme la vittoria e, visto che ci sono e che ormai è pagato, fargli pure un bel prelievo.
25.8.25
Il tosaerba (1445)
I
Uno dice: le persone.
Presto il tosaerba al mio amico Silvestro. Quando glielo porto, gli dico: «Silvestro, per favore, non romperlo: è nuovo, è costoso, ci tengo tantissimo e bisogna saperlo maneggiare, io ho fatto un corso propedeutico di tre anni, per dire».
Silvestro mi fa: «Tranquillo».
Io penso: mm.
Silvestro non ha una buona reputazione, perciò lo avverto: «Devo avvisarti che, nel malaugurato caso in cui il tosaerba dovesse riportare dei danni, mi toccherà, a malincuore, chiederti il costo della riparazione».
Un mero bluff, giusto un tentativo di indurre Silvestro a stare attento. Ma cosa potrebbe mai rispondere? “Grazie, hai fatto bene a dirlo, perché in questo modo hai stimolato una riflessione supplementare” – supplementare a nessuna riflessione – “che mi ha portato all’onesta conclusione di non essere pronto a custodire il tuo tosaerba”?
Nella mia testa le persone sono tutte razionali e responsabili e dicono cose belle e giuste a me favorevoli. Nella realtà, che è dove si svolge l'azione, Silvestro dice: «Ok».
Così gli presto il tosaerba.
II
La settimana dopo, quando vado a riprendermelo, Silvestro me lo riconsegna e il manubrio del tosaerba è rotto.
Faccio presente a Silvestro che qualcosa non torna.
«Sembra che qui ci sia una crepa» dico indicando una crepa.
«Dove?» mi fa lui
«Proprio qui, sul mio tosaerba» gli dico.
Silvestro si china ed esamina la crepa come se la vedesse per la prima volta. Non commenta. Ispeziono con maggiore accuratezza: il rivestimento del manubrio è scollato e sembra esserci del nastro adesivo. Riemergo dall’ispezione e, mentre mi sfilo i guanti in lattice, dico:
«Ci hai messo dello scotch».
«Sì» ammette Silvestro, anche perché non potrebbe fare altrimenti. Avrebbe potuto anche dire “no” o “non mi ricordo” o “abbecedario”.
Mantengo la calma. La Calma è lì che indica l’orologio al polso e mi fa: “Devo proprio scappare”, ma io metto su il tè e le dico: “Resta un altro po’, per favore”. La Calma dice: “Va bene”, e così torno da Silvestro. Da dentro a fuori, da fuori a dentro. Un essere umano provetto sa destreggiarsi tra l’uno e l’altro versante mantenendo un lodevole equilibrio.
III
«E come si è formata questa crepa, se posso?» chiedo a Silvestro servendo il tè nelle tazzine giocattolo dei suoi figli, in mezzo al prato ben tosato. Silvestro prende la tazzina. Sediamo sulle minuscole sedie del minuscolo tavolino in plastica verde.
«Credo sia successo quando lo ha usato Sean» dice mescolando il tè con un rametto.
«E, di grazia, com’è che hai fatto usare il tosaerba a Sean?» gli chiedo. Sean ha otto anni. Sto per farlo notare a Silvestro, ma concludo che dovrebbe ricordarlo.
Silvestro dice: «No, ma era spento, era per farlo giocare un po’. Infatti dopo non gliel'ho fatto usare più, “guai se ti avvicini” gli ho detto» dice, e ride.
“Ah, questi bambini…” penso sollevando il coperchio della custodia del mio gatto a nove code. La Calma si avvicina e lo richiude. “No” dice. Tra l’altro non so perché Silvestro abbia precisato che il tosaerba fosse spento: che il tosaerba potesse risucchiare Sean trasformandolo in un cumulo di pappardelle al ragù occupa, nella lista delle mie preoccupazioni, la posizione numero 9.530, appena prima di “Come si chiama il primo ministro di Haiti?”. Decido che questa osservazione potrebbe nuocere alla mia indagine.
Sorrido, allora. Prendo una zolletta di zucchero e faccio per metterla nella tazzina di Silvestro.
«Altro zucchero?».
Silvestro fa segno di no col pesante capo.
«E, così per curiosità,» dico buttandomi la zolletta alle spalle, «come mai non gli hai detto di non usarlo prima che lo usasse?».
Silvestro fa spallucce, come sua abitudine.
«Era solo per dirti che non l'ho rotto io. Io neanche c'ero» dice, pensando di migliorare la sua posizione.
«Capisco» dico. «Bene. Credo di aver raccolto tutte le informazioni. Immagino tu sia d'accordo con me nell’affermare che, da un punto di vista legale, rispondi per le azioni degli esseri umani che hai messo al mondo, almeno finché non sanno guidare un trattore».
Silvestro allarga le braccia. Sembra voler dire: “E cosa vuoi che ti dica?”. Dall’apertura alare cerco di capire se c’è spazio anche per una virgola e un “coglione”. Tra l'altro voglio che lo ripaghi solo per un fatto di giustizia, cosa me ne frega di un tosaerba?, penso, non ho neanche il prato.
IV
Naturalmente, tornato a casa, mi tormenta l’idea di essere stato ingiusto o inutilmente giusto. La sera, a cena al Gou Sheng, ne parlo con gli amici più fidati.
Paola dice: «Ma sì, quante storie… non fare lo stronzo».
«Se fosse il tuo tosaerba?» le chiedo giusto per scrupolo.
«Gli mangerei il fegato» dice lei infilandosi in bocca mezzo involtino.
Carla dice: «Io avrei spezzato un dito al bambino».
Le dico: «Tu spezzeresti un dito al bambino a prescindere dal manubrio rotto».
Carla alza un sopracciglio.
Giorgio dice: «Anche se hai ragione su tutta la linea, sarebbe cortese da parte tua lasciar correre. E prima che tu me lo chieda: se fosse il mio tosaerba direi uguale».
Roberto dice: «Scemo tu a prestarglielo: una volta sono andato tre giorni al mare con Silvestro e, invece che in una valigia, aveva messo i vestiti in un sacco della spazzatura».
Chiedo anche un parere a Zhōng Qīn, la cameriera.
«In Cina cosa gli fareste?».
Zhōng Qīn mi guarda e dice: «Io sono di Alessandria» .
V
Alla fine decido di ascoltare la corrente perdonista, dunque scrivo a Silvestro: “Senti, non preoccuparti per il tosaerba, mi accollerò io la riparazione”.
Appena invio il messaggio mi sento meglio. Molto meglio. Mi sento pervadere da un tepore benefico, sento di aver fatto la cosa giusta, sento che è così che dovrebbe essere il mondo; è come se, con il mio gesto, fossi entrato in connessione con una verità più alta, attuando una sorta di panteismo etico. Che bello, penso.
A quel punto il caso può dirsi risolto, Silvestro deve solo scrivere una parola e siamo tutti felici. La parola è semplice, è quella che gli hanno insegnato a dire in certe precise situazioni la mamma, il papà, i nonni e le nonne, più tutta un'altra quantità di gente, dalle maestre ai vigili urbani, dagli allenatori ai Teletubbies. La parola è: “Grazie”.
Sia chiaro: non lo faccio per il “grazie”. Cosa potrò mai farmene di un “grazie”? Mi serve ancora meno di un tosaerba. Ma il “grazie” è comunque un piccolo sforzo di gentilezza che l'altra persona fa per riconoscere la tua. Come a dire: “Tu sei gentile, l'ho capito; la tua è gentilezza, lo so”. Come a dire: “Anch'io sono gentile, voglio che tu lo capisca; anche la mia è gentilezza, lo sai”. Come a dire: “Siamo due persone gentili e questo ci rende fratelli, ci rende sorelle, ci rende nonni e nonne. Su questo pianeta selvaggio ci siamo noi e poi ci sono tutti gli altri, ci sono i serpenti, ci sono i dirupi, ci sono i fortunali e i meteoriti, i farabutti e i maleducati. Ma, almeno, non siamo soli. Non sei solo, Joey. Non sono solo, Silvestro”.
Ecco cosa mi aspetto mentre vedo, sotto il mio messaggio, che Silvestro sta scrivendo... Cosa starà scrivendo?, mi chiedo. Ma già lo so. Sta scrivendo: “Grazie”. O “Grazie mille”. O “Grazie mille, amico mio”. O “Grazie mille, amico mio, sei una bella persona e ti chiedo ancora scusa per aver rotto il tuo magnifico tosaerba. E ti voglio bene. Tutti ti vogliono bene. Sei la persona migliore del mondo”.
Sorrido. Ti voglio bene anch’io, amico, penso mentre aspetto di veder comparire da un momento all’altro l’agognata parola risolutrice.
Ma il cugino Silvestro scrive solo: “Ok”.
Ok?, penso. Ok come: “Non mi importa”. Ok come: “Fa' come ti pare”. Ok come: “Ma non hai niente di meglio a cui pensare?!”.
E la risposta è no. In questo momento il modo migliore di impiegare i miei pensieri è come risolvere in modo appagante la faccenda del tosaerba. Faccenda controversa. Faccenda poco chiara. Faccenda che non è andata come si sperava che andasse. Come tosare un prato e vedere che c’è ancora un filo d’erba non perfettamente a pari, o addirittura un buco, un’alopecia erbosa e, a un più attento esame, una crepa nel terreno, e ora infatti per colpa di Silvestro c’è una crepa nella mia memoria, una crepa che, se non faccio qualcosa per sistemarla, resterà lì per sempre, forse tenderà ad allargarsi, forse è la crepa da cui, mi dirà un giorno uno psichiatra prescrivendomi delle pastiglie colorate, è cominciato tutto. Lei era un uomo felice, equilibrato, signor Baruffa, la mattina balzava fuori dal letto con la voglia di vivere di un giovane cerbiatto uzbeko, usciva di casa, montava sul suo bel tosaerba e andava al Cerveza a fare colazione, pronto a cominciare un’altra magnifica giornata, ma poi, vede, proprio quella faccenduola del tosaerba, ecco, lì, dentro di lei, si è formata una piccola crepa, che poi però si è allargata, e allargata, e allargata ancora, e adesso eccoci qua, lei vestito da pappagallo e io che le devo prescrivere otto pilloline al giorno.
«Otto pilloline al giorno!» ripeto con voce stridula al dottore immaginario, alzandomi poi di scatto dal divano e infilando la porta per volare dritto dall’amico Silvestro.
VI
Arrivato a casa di Silvestro, suono il campanello una dozzina di volte, serenamente. Silvestro viene ad aprire.
«Ehi, ciao» mi fa.
«Ciao, amico» gli faccio. «Senti, mi presti Sean per un paio d'ore? Volevo dire: mi piacerebbe tanto portare Sean a prendere un gelato. Solo io e Sean. Manubrio nel manubrio. Volevo dire: mano nella mano».
Silvestro mi guarda e mi fa: «Ok».
Mm, penso, se non altro è un tipo lineare, chissà che bello vivere nella costante indifferenza per le cose.
«Sean!» urla Silvestro rivolto all’interno dell’abitazione, «vuoi andare con Joey a prendere un gelato?».
«Se non è troppo impegnato a rompere le altrui proprietà» dico.
Silvestro mi squadra senza rispondere. Intanto Sean accorre, tutto felice, felice come uno a cui non hanno ancora rotto un tosaerba, penso, felice come qualcuno che non è stato ancora non ringraziato.
«Come lo vuoi il gelato?» gli chiedo.
«Fragola» dice Sean.
«Ottima scelta!» dico. Poi, rivolto al padre: «Il piccino ha i soldini per pagarsi il cono?».
Siccome il fantasma di un tosaerba aleggia su di noi, Silvestro non ribatte e dà al figlio una banconota.
«Magnifico, andiamo!» dico.
Poco più tardi, mentre siamo seduti su una panchina del viale, Sean con un gelato, io con una birra, lo guardo e gli dico: «Buono?».
Sean annuisce, soddisfatto.
«Bene, ancora nove di queste,» gli dico mostrando la birra, «e dovremmo essere pari».
Sean fa spallucce. Che carino, penso. Proprio come suo padre, penso.
Gli sorrido e gli dico: «Ti va se prima di tornare a casa passiamo a salutare zia Carla?».
19.8.25
Binge (1444)
Io ogni sera: «Che palle, non c'è una serie decente. Non ho più niente da guardare».
Io quando finalmente ne trovo una: «Bene, otto puntate. Se le doso, sono a posto per una settimana».
Io otto ore dopo, alle quattro del mattino: «Non ho più niente da guardare».
Io quando finalmente ne trovo una: «Bene, otto puntate. Se le doso, sono a posto per una settimana».
Io otto ore dopo, alle quattro del mattino: «Non ho più niente da guardare».
17.8.25
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