La vera realtà (1470)
Sono in cassa al supermercato e una signora lì vicino fa cadere una bottiglia di vino rosso da tre litri. Un bel botto, vino e cocci ovunque. Una volta a casa chiamo la mia amica Paola e le racconto l’episodio. Lei tutta su di giri mi fa: «Incredibile! Ma lo sai cosa ho sognato stanotte?». «Cosa?» le chiedo. E lei: «Che eri qui da me, io ero in cucina e tu in sala da pranzo, c’erano anche gli altri e a un certo punto arrivi e mi fai: “Paola, è successo un disastro”. Vengo di là e cosa vedo? Qualcuno ha fatto cadere una bottiglia di vino rosso, ci sono vino e cocci dappertutto!». Mi metto e ridere e dico: «Wow, che coincidenza!». Ma Paola dice: «Coincidenza? Non lo so». Allora io: «Paola, per favore, non cominciamo. So che tu credi che esista una realtà invisibile nascosta dietro la realtà visibile, una realtà più vera e più significativa e anche, perché no?, un pochino magica, che manda segnali misteriosi che solo pochi eletti sanno captare e decriptare al fine di sbloccare il livello bonus con le vite infinite e le pietre preziose, ma la verità è che facciamo moltissimi sogni e nel mondo succedono moltissime cose e, ogni tanto, capita che una cosa sognata la notte si verifichi nei dintorni tale e quale non appena fa giorno, ma non è un segnale segreto, è solo probabilità, è mero caso». Silenzio. All’altro capo si ode soltanto un sommesso ribollio. Allora dico: «Senti, facciamo così: dimmi un altro sogno che hai fatto, o qualche altra cosa che ti è successa nel sogno di stanotte e, se anche quella si verifica entro stasera, comincerò a prendere cautamente in considerazione certe baggianate». Al che Paola mi fa: «Sì, ho fatto un altro sogno, in effetti». «Ecco, benissimo,» le dico, «che cosa hai sognato?». E lei: «Ho sognato che venivo a casa tua e ti riempivo di botte». E io: «Ah, ehm». E lei: «Vediamo un po’ se si verifica».
22.12.25
Il trapano (1469)
Il mio anziano padre si è comprato un trapano.
Quando non era in pensione per lui era normale avere non uno, non due ma decine di trapani, faceva in modo di non trovarsi mai a meno di un braccio di distanza da un trapano, e se di notte il trapano si alzava dal letto, l’anziano padre si svegliava subito:
«Dove vai?» gli chiedeva.
«In bagno. Torna a dormire» gli diceva il trapano.
Erano felici, lui e i suoi trapani. Ma poi purtroppo si invecchia e con l’invecchiamento, sapete com’è, i trapani cominciano a diradarsi, si fanno sentire sempre meno, hanno i loro problemi o si sono fatti una famiglia e quando li chiami per chiedere se gli va di andare a bucare qualcosa ti dicono che gli piacerebbe tanto ma c’hanno il trapano piccolo che sta cambiando le punte e, insomma, non possono. Così va la vita, direbbe Kurt Vonnegut e, onestamente, quasi chiunque altro.
Quando è arrivato il momento, l’anziano padre è andato in pensione. Ha ceduto l’attività, compreso l’ultimo trapano.
«Tenga,» ha detto a chi rilevava la sua azienda, «senza questo non sarei arrivato dove sono».
«Ma lei faceva il commercialista» ha detto l’altro, e per tutta risposta l’anziano padre gli ha fatto un buco nella giacca.
Comunque l’ha ceduto e per diversi anni ha fatto senza. Non neghiamolo: un uomo come l’anziano padre, senza il trapano, è come un giovane trapano senza punta.
A volte io lo chiamavo e gli dicevo: «Pa’, verresti da me a farmi qualche buco nel muro?». Io, buchi nel muro coi trapani, non ne faccio, perché beccherei un tubo dell’acqua o dei fili elettrici, anzi prima un filo elettrico e poi un tubo dell’acqua appena sopra, per una folgorazione perfetta. Ma l’anziano padre sapeva sempre dove forare:
«Un vero uomo lo sa dove sono i tubi,» mi diceva forando il muro alla cieca in tutta sicurezza, «tieni, prova tu» e io foravo il bracciolo di una poltrona, per star tranquillo, e però veniva fuori dell’acqua lo stesso, o foravo un libro e andava via la luce nella pizzeria accanto.
Che prima, quando glielo chiedevo, veniva ed era contentissimo, mi appendeva le mensole, i quadri, «Ti serve un foro anche qui?» mi chiedeva trapanando un mobile, «Veramente no» gli dicevo io, «Un buco serve sempre,» diceva lui, «te ne faccio anche uno nella tv». Quanti problemi mi ha risolto con il solo uso del trapano! Per esempio se l’acqua non voleva saperne di scendere nel lavandino o se non riuscivo a vedere bene i vicini mentre facevano sesso o se una cintura mi stava più larga del dovuto. Ci andava anche alle udienze dei professori, e infatti loro di me parlavano sempre benissimo. Ma poi, senza più trapano, veniva ugualmente e cercava di bucare le cose a mano, con una forchetta o un coltello, e il risultato non era lo stesso: «Sicuro che tenga?» chiedevo guardando la mensola tutta storta. Lui non rispondeva e, avvilito, se ne andava.
Se poi buttavo lì l’idea di comprarsi un trapano, l’anziana madre si metteva in mezzo: «Se entra ancora un trapano in questa casa, esco io!» diceva.
L’anziana madre osteggia da sempre le passioni e i desideri dell’anziano padre, perché lui deve avere una sola passione e un solo desiderio: l’anziana madre. Naturalmente questa cosa la nega e per giustificare le sistematiche interferenze accampa ogni genere di scusa.
«Ma che ti frega?» le dicevo. «Che fastidio ti dà?».
E lei: «Il trapano gli fa salire i battiti e il cardiologo ha detto che devono stare tra i 41 e i 44. Non vedi che solo all’idea di avere un trapano gli sono saliti a 48?». L’anziana madre ha un’applicazione sul cellulare che le dice sempre quanti sono i battiti del cuore del marito. Può anche alzarli o abbassarli a piacimento, come una lampada dimmerabile.
L’anziano padre sospirava, si rassegnava e diceva: «Allora almeno mi mangio questo panino», ma l’anziana madre con uno schiaffo gli colpiva la mano e faceva volare il panino sul lampadario.
E allora io: «Ma perché?».
E lei: «Ingrassa! Il dietologo ha detto che il suo peso deve stare a 73.7, non un panino di più, non un panino di meno».
«Ma peserà più di 80…» le dicevo io, e lei guardando l’anziano padre con malcelata riprovazione diceva: «Appunto!», e gli toglieva anche la briciolina di pane che lui, cronicamente affamato, aveva raccolto dalla tovaglia di nascosto, col gomito.
Ma gli anni passano, gli angoli si smussano, le anziane madri si ammorbidiscono, si distraggono e alla fine all’anziano padre è stata fatta la sospirata concessione: «Puoi prenderti un trapano».
Come sempre l’incarico dell’acquisto online è stato appioppato al sottoscritto, addetto alle beghe tecnologiche nonché badante in pectore.
Quando il trapano è arrivato, l’anziana madre ha cercato subito dei motivi per restituirlo. Perché i giorni passano, gli angoli si riaffilano, le anziane madri si irrigidiscono e si riconcentrano.
Così ricevo una telefonata verso metà pomeriggio del giorno stesso. È l’anziana madre in persona.
«Il trapano ha qualcosa di strano» dice.
«Sarebbe?».
«Mancano i sacchettini delle punte. Non erano dentro il cellofan».
«Che cellofan?» chiedo.
«Sai che di solito sono nei sacchettini di cellofan».
«No,» le dico, «come potrei saperlo? Non ho mai comprato un trapano. Tu hai mai comprato un trapano?».
«No. Ma anche i libretti delle istruzioni. Erano sciolti, tutti sparsi. E c’era un capello».
«Per caso stai cercando una scusa per restituirlo?».
«Sto solo dicendo che sembra sia già stato aperto».
«Senti,» le dico, «io sono soltanto un umile intermediario, mi dite cosa devo acquistare e io lo acquisto. Mi interessa solo se il trapano lo tieni o se lo rendi, non voglio sapere altro».
«No no, lo tengo» ha detto lei.
«Bene. In ogni caso avete tempo per restituirlo fino al 15 gennaio».
«Ah sì?».
Così il trapano è rimasto, ma sub judice. Sarà l’anziano padre a usarlo, sarà l’anziana madre a valutarlo.
Come prima cosa è stato vietato all’anziano padre di dormire con il trapano sotto il cuscino, com’era solito fare quando non era in pensione.
«Nemmeno se lo spengo?» ha chiesto lui.
Gli è stato anche vietato di usarlo come sveglia, come spazzolino elettrico, come cotton-fioc e per mescolare i gusti del gelato, d’estate, il passato di verdure, d’inverno. Ovviamente non può andarci in giro, tenendolo nel fodero come Tex Willer, suo mentore impareggiabile. Inoltre non può usare il trapano a tavola, che sia per fare buchi nel pane da farcire con salse e marmellate o per rompere le pastiglie da smezzare con l’anziana madre. Non può usarlo per comunicare, soprattutto (un giro a vuoto per il Sì, due per il No e tre per il Non lo so), e non può usarlo, va da sé, per fare l’amore.
Può usarlo solo per fare buchi che prima devono essere approvati dall’Ufficio Perforazioni, aperto tutti i giorni dalle 12 alle 13.30 e dalle 19 alle 20, ovvero quando si è a tavola, e la cui Direttrice Unica è l’anziana madre stessa. Il foro o i fori da praticare vanno descritti nell’apposito spazio degli appositi moduli nella loro precisa (ipotetica) ubicazione e nella loro obiettiva necessità generale. In caso di approvazione, possono essere praticati negli orari stabiliti e mai durante il rosario, che gli anziani genitori seguono quotidianamente alla tv, come una partita di calcio, pena l’immediata restituzione del trapano e una poltroncina prenotata all’inferno.
Il primo utilizzo del trapano è stato per l’albero di Natale.
L’anziano padre ha ottenuto in effetti il permesso di comprare il trapano convincendo la Direttrice dell’Ufficio Acquisti e quella dell’Ufficio Addobbi che senza il trapano non sarebbe stato possibile montare l’albero e questo avrebbe quasi certamente rattristato il giovane figlio (che non va mai rattristato) quando fosse venuto a pranzo, o addirittura, ha detto l’anziano padre, Dio non voglia, ha aggiunto per impressionare l’anziana madre, il giovane figlio, venuto a sapere da qualche segreto anziano informatore dell’assenza dell’albero stesso, non sarebbe venuto affatto.
In che modo il trapano sia indispensabile ai fini del montaggio dell’albero è cosa che onestamente tutti ignoriamo ma che ha comunque contribuito a ottenere l’approvazione richiesta.
Il giorno dopo l’arrivo del trapano, l’albero di Natale è dunque al proprio posto, e io vengo invitato a contemplarlo, cosa che faccio mangiando del brasato accompagnato da un bicchiere di barolo, entrambi necessari per ogni mia visita straordinaria a casa degli anziani genitori, fossero anche le quattro del pomeriggio.
Nel frattempo l’anziano padre sottopone all’anziana madre richieste di nuove indispensabili perforazioni: finalmente potrà agganciare al muro quello scaffale portabottiglie che tempo fa ho acquistato e che, non volendolo in casa mia per la sua ineleganza, ho parcheggiato dagli anziani genitori, da cui vado a rifornirmi alla bisogna, come all’Esselunga.
«Te lo metto dove vuoi, dimmi solo il posto!» mi dice l’anziano padre, euforico, sparando giri di trapano verso l’Altissimo.
«Ti ho detto che non voglio vedere il trapano a tavola!» lo rimprovera allora l’anziana madre leggendo intanto la documentazione sottoposta dal coniuge ai fini dell’approvazione. L’anziano padre risponde con mezzo giro di trapano a velocità 3, che sta per Scusa, cara. Poi promette di appendere «il famoso quadro». «C’è tanto da fare!» aggiunge passando il relativo modulo all’anziana Direttrice.
«Di quale quadro blateri?» dice lei aggrottando la fronte ed esaminando la nuova richiesta scritta.
«Quello che sta giù nella cassapanca, che mi hai chiesto così tante volte di appendere… saranno dieci anni che insisti!» dice lui.
Qui cala un tetro silenzio. Poi:
«Quello di me, te e Derrick?» chiede l’anziana madre posando i moduli sul tavolo, levandosi gli occhiali da lettura e squadrando l’anziano padre con la flemma di chi terrà dalla parte del manico la fiamma ossidrica. Derrick era il pastore tedesco dei miei, amatissimo dall’anziana madre – e così chiamato in onore del noto ispettore, suo idolo –, purtroppo scomparso prematuramente (ovvero, secondo i criteri dell’anziana madre, prima del raggiungimento del cinquantesimo anno di età canina).
A questo punto l’anziano padre si rende conto di aver commesso un’imprudenza, cioè di aver calpestato una gigantesca merda teutonica.
«Dammi subito quel trapano» intima l’anziana madre cercando di sfilarlo dalla mano dell’anziano padre, il quale però riesce a proteggerlo dal maldestro tentativo di scippo facendo scudo all’arnese con il proprio corpo, dicendo poi: «Scusa, scusa! Solo un piccolo errore… ma con il trapano posso fare un buco nel quadro in corrispondenza del cane, così resteremmo solo noi due…».
Tralasciando l’assurdità della proposta, difficile dire se sia più grave aver dimenticato che Derrick non c’è più, rammentandolo così all’anziana madre e ravvivando l’incancellabile dolore causato dalla sua dipartita, o aver chiamato Derrick “cane”. Poco importa, comunque, poiché il risultato non cambia. L’anziana madre mi guarda e sentenzia: «Avvia il reso».
«Prima dovremmo riuscire a prenderglielo» le dico.
Allora lei, rivolta all’anziano padre: «Il trapano è confiscato, dammelo».
L’anziano padre risponde con due giri di trapano (No), subito dopo alzandosi, precipitandosi alla porta d’ingresso, praticando un rapido foro in modo da far saltare la serratura, aprendo così la porta e dandosi tosto alla macchia.
L’anziana madre osserva la scena, poi mi guarda e dice: «Non avrei dovuto dargli il permesso di comprarlo».
«Tra l’altro la porta era aperta» dico io.
Lei scuote la testa, poi fa un cenno verso l’albero e dice: «Almeno abbiamo l’albero. Ti piace?».
«Sì, bello,» le dico, «però…».
«Però?» chiede l’anziana madre, ormai provata.
«Mancherebbero i cioccolatini a forma di ghianda e di Babbo Natale».
L’anziana madre mi squadra per qualche istante, valuta brevemente l’ipotesi di comprarsi un trapano e un badile per regolare tutti i conti in sospeso ma poi, forse ricordando che ormai è Natale, sospira e dice:
«Domani li vado a prendere».
Quando non era in pensione per lui era normale avere non uno, non due ma decine di trapani, faceva in modo di non trovarsi mai a meno di un braccio di distanza da un trapano, e se di notte il trapano si alzava dal letto, l’anziano padre si svegliava subito:
«Dove vai?» gli chiedeva.
«In bagno. Torna a dormire» gli diceva il trapano.
Erano felici, lui e i suoi trapani. Ma poi purtroppo si invecchia e con l’invecchiamento, sapete com’è, i trapani cominciano a diradarsi, si fanno sentire sempre meno, hanno i loro problemi o si sono fatti una famiglia e quando li chiami per chiedere se gli va di andare a bucare qualcosa ti dicono che gli piacerebbe tanto ma c’hanno il trapano piccolo che sta cambiando le punte e, insomma, non possono. Così va la vita, direbbe Kurt Vonnegut e, onestamente, quasi chiunque altro.
Quando è arrivato il momento, l’anziano padre è andato in pensione. Ha ceduto l’attività, compreso l’ultimo trapano.
«Tenga,» ha detto a chi rilevava la sua azienda, «senza questo non sarei arrivato dove sono».
«Ma lei faceva il commercialista» ha detto l’altro, e per tutta risposta l’anziano padre gli ha fatto un buco nella giacca.
Comunque l’ha ceduto e per diversi anni ha fatto senza. Non neghiamolo: un uomo come l’anziano padre, senza il trapano, è come un giovane trapano senza punta.
A volte io lo chiamavo e gli dicevo: «Pa’, verresti da me a farmi qualche buco nel muro?». Io, buchi nel muro coi trapani, non ne faccio, perché beccherei un tubo dell’acqua o dei fili elettrici, anzi prima un filo elettrico e poi un tubo dell’acqua appena sopra, per una folgorazione perfetta. Ma l’anziano padre sapeva sempre dove forare:
«Un vero uomo lo sa dove sono i tubi,» mi diceva forando il muro alla cieca in tutta sicurezza, «tieni, prova tu» e io foravo il bracciolo di una poltrona, per star tranquillo, e però veniva fuori dell’acqua lo stesso, o foravo un libro e andava via la luce nella pizzeria accanto.
Che prima, quando glielo chiedevo, veniva ed era contentissimo, mi appendeva le mensole, i quadri, «Ti serve un foro anche qui?» mi chiedeva trapanando un mobile, «Veramente no» gli dicevo io, «Un buco serve sempre,» diceva lui, «te ne faccio anche uno nella tv». Quanti problemi mi ha risolto con il solo uso del trapano! Per esempio se l’acqua non voleva saperne di scendere nel lavandino o se non riuscivo a vedere bene i vicini mentre facevano sesso o se una cintura mi stava più larga del dovuto. Ci andava anche alle udienze dei professori, e infatti loro di me parlavano sempre benissimo. Ma poi, senza più trapano, veniva ugualmente e cercava di bucare le cose a mano, con una forchetta o un coltello, e il risultato non era lo stesso: «Sicuro che tenga?» chiedevo guardando la mensola tutta storta. Lui non rispondeva e, avvilito, se ne andava.
Se poi buttavo lì l’idea di comprarsi un trapano, l’anziana madre si metteva in mezzo: «Se entra ancora un trapano in questa casa, esco io!» diceva.
L’anziana madre osteggia da sempre le passioni e i desideri dell’anziano padre, perché lui deve avere una sola passione e un solo desiderio: l’anziana madre. Naturalmente questa cosa la nega e per giustificare le sistematiche interferenze accampa ogni genere di scusa.
«Ma che ti frega?» le dicevo. «Che fastidio ti dà?».
E lei: «Il trapano gli fa salire i battiti e il cardiologo ha detto che devono stare tra i 41 e i 44. Non vedi che solo all’idea di avere un trapano gli sono saliti a 48?». L’anziana madre ha un’applicazione sul cellulare che le dice sempre quanti sono i battiti del cuore del marito. Può anche alzarli o abbassarli a piacimento, come una lampada dimmerabile.
L’anziano padre sospirava, si rassegnava e diceva: «Allora almeno mi mangio questo panino», ma l’anziana madre con uno schiaffo gli colpiva la mano e faceva volare il panino sul lampadario.
E allora io: «Ma perché?».
E lei: «Ingrassa! Il dietologo ha detto che il suo peso deve stare a 73.7, non un panino di più, non un panino di meno».
«Ma peserà più di 80…» le dicevo io, e lei guardando l’anziano padre con malcelata riprovazione diceva: «Appunto!», e gli toglieva anche la briciolina di pane che lui, cronicamente affamato, aveva raccolto dalla tovaglia di nascosto, col gomito.
Ma gli anni passano, gli angoli si smussano, le anziane madri si ammorbidiscono, si distraggono e alla fine all’anziano padre è stata fatta la sospirata concessione: «Puoi prenderti un trapano».
Come sempre l’incarico dell’acquisto online è stato appioppato al sottoscritto, addetto alle beghe tecnologiche nonché badante in pectore.
Quando il trapano è arrivato, l’anziana madre ha cercato subito dei motivi per restituirlo. Perché i giorni passano, gli angoli si riaffilano, le anziane madri si irrigidiscono e si riconcentrano.
Così ricevo una telefonata verso metà pomeriggio del giorno stesso. È l’anziana madre in persona.
«Il trapano ha qualcosa di strano» dice.
«Sarebbe?».
«Mancano i sacchettini delle punte. Non erano dentro il cellofan».
«Che cellofan?» chiedo.
«Sai che di solito sono nei sacchettini di cellofan».
«No,» le dico, «come potrei saperlo? Non ho mai comprato un trapano. Tu hai mai comprato un trapano?».
«No. Ma anche i libretti delle istruzioni. Erano sciolti, tutti sparsi. E c’era un capello».
«Per caso stai cercando una scusa per restituirlo?».
«Sto solo dicendo che sembra sia già stato aperto».
«Senti,» le dico, «io sono soltanto un umile intermediario, mi dite cosa devo acquistare e io lo acquisto. Mi interessa solo se il trapano lo tieni o se lo rendi, non voglio sapere altro».
«No no, lo tengo» ha detto lei.
«Bene. In ogni caso avete tempo per restituirlo fino al 15 gennaio».
«Ah sì?».
Così il trapano è rimasto, ma sub judice. Sarà l’anziano padre a usarlo, sarà l’anziana madre a valutarlo.
Come prima cosa è stato vietato all’anziano padre di dormire con il trapano sotto il cuscino, com’era solito fare quando non era in pensione.
«Nemmeno se lo spengo?» ha chiesto lui.
Gli è stato anche vietato di usarlo come sveglia, come spazzolino elettrico, come cotton-fioc e per mescolare i gusti del gelato, d’estate, il passato di verdure, d’inverno. Ovviamente non può andarci in giro, tenendolo nel fodero come Tex Willer, suo mentore impareggiabile. Inoltre non può usare il trapano a tavola, che sia per fare buchi nel pane da farcire con salse e marmellate o per rompere le pastiglie da smezzare con l’anziana madre. Non può usarlo per comunicare, soprattutto (un giro a vuoto per il Sì, due per il No e tre per il Non lo so), e non può usarlo, va da sé, per fare l’amore.
Può usarlo solo per fare buchi che prima devono essere approvati dall’Ufficio Perforazioni, aperto tutti i giorni dalle 12 alle 13.30 e dalle 19 alle 20, ovvero quando si è a tavola, e la cui Direttrice Unica è l’anziana madre stessa. Il foro o i fori da praticare vanno descritti nell’apposito spazio degli appositi moduli nella loro precisa (ipotetica) ubicazione e nella loro obiettiva necessità generale. In caso di approvazione, possono essere praticati negli orari stabiliti e mai durante il rosario, che gli anziani genitori seguono quotidianamente alla tv, come una partita di calcio, pena l’immediata restituzione del trapano e una poltroncina prenotata all’inferno.
Il primo utilizzo del trapano è stato per l’albero di Natale.
L’anziano padre ha ottenuto in effetti il permesso di comprare il trapano convincendo la Direttrice dell’Ufficio Acquisti e quella dell’Ufficio Addobbi che senza il trapano non sarebbe stato possibile montare l’albero e questo avrebbe quasi certamente rattristato il giovane figlio (che non va mai rattristato) quando fosse venuto a pranzo, o addirittura, ha detto l’anziano padre, Dio non voglia, ha aggiunto per impressionare l’anziana madre, il giovane figlio, venuto a sapere da qualche segreto anziano informatore dell’assenza dell’albero stesso, non sarebbe venuto affatto.
In che modo il trapano sia indispensabile ai fini del montaggio dell’albero è cosa che onestamente tutti ignoriamo ma che ha comunque contribuito a ottenere l’approvazione richiesta.
Il giorno dopo l’arrivo del trapano, l’albero di Natale è dunque al proprio posto, e io vengo invitato a contemplarlo, cosa che faccio mangiando del brasato accompagnato da un bicchiere di barolo, entrambi necessari per ogni mia visita straordinaria a casa degli anziani genitori, fossero anche le quattro del pomeriggio.
Nel frattempo l’anziano padre sottopone all’anziana madre richieste di nuove indispensabili perforazioni: finalmente potrà agganciare al muro quello scaffale portabottiglie che tempo fa ho acquistato e che, non volendolo in casa mia per la sua ineleganza, ho parcheggiato dagli anziani genitori, da cui vado a rifornirmi alla bisogna, come all’Esselunga.
«Te lo metto dove vuoi, dimmi solo il posto!» mi dice l’anziano padre, euforico, sparando giri di trapano verso l’Altissimo.
«Ti ho detto che non voglio vedere il trapano a tavola!» lo rimprovera allora l’anziana madre leggendo intanto la documentazione sottoposta dal coniuge ai fini dell’approvazione. L’anziano padre risponde con mezzo giro di trapano a velocità 3, che sta per Scusa, cara. Poi promette di appendere «il famoso quadro». «C’è tanto da fare!» aggiunge passando il relativo modulo all’anziana Direttrice.
«Di quale quadro blateri?» dice lei aggrottando la fronte ed esaminando la nuova richiesta scritta.
«Quello che sta giù nella cassapanca, che mi hai chiesto così tante volte di appendere… saranno dieci anni che insisti!» dice lui.
Qui cala un tetro silenzio. Poi:
«Quello di me, te e Derrick?» chiede l’anziana madre posando i moduli sul tavolo, levandosi gli occhiali da lettura e squadrando l’anziano padre con la flemma di chi terrà dalla parte del manico la fiamma ossidrica. Derrick era il pastore tedesco dei miei, amatissimo dall’anziana madre – e così chiamato in onore del noto ispettore, suo idolo –, purtroppo scomparso prematuramente (ovvero, secondo i criteri dell’anziana madre, prima del raggiungimento del cinquantesimo anno di età canina).
A questo punto l’anziano padre si rende conto di aver commesso un’imprudenza, cioè di aver calpestato una gigantesca merda teutonica.
«Dammi subito quel trapano» intima l’anziana madre cercando di sfilarlo dalla mano dell’anziano padre, il quale però riesce a proteggerlo dal maldestro tentativo di scippo facendo scudo all’arnese con il proprio corpo, dicendo poi: «Scusa, scusa! Solo un piccolo errore… ma con il trapano posso fare un buco nel quadro in corrispondenza del cane, così resteremmo solo noi due…».
Tralasciando l’assurdità della proposta, difficile dire se sia più grave aver dimenticato che Derrick non c’è più, rammentandolo così all’anziana madre e ravvivando l’incancellabile dolore causato dalla sua dipartita, o aver chiamato Derrick “cane”. Poco importa, comunque, poiché il risultato non cambia. L’anziana madre mi guarda e sentenzia: «Avvia il reso».
«Prima dovremmo riuscire a prenderglielo» le dico.
Allora lei, rivolta all’anziano padre: «Il trapano è confiscato, dammelo».
L’anziano padre risponde con due giri di trapano (No), subito dopo alzandosi, precipitandosi alla porta d’ingresso, praticando un rapido foro in modo da far saltare la serratura, aprendo così la porta e dandosi tosto alla macchia.
L’anziana madre osserva la scena, poi mi guarda e dice: «Non avrei dovuto dargli il permesso di comprarlo».
«Tra l’altro la porta era aperta» dico io.
Lei scuote la testa, poi fa un cenno verso l’albero e dice: «Almeno abbiamo l’albero. Ti piace?».
«Sì, bello,» le dico, «però…».
«Però?» chiede l’anziana madre, ormai provata.
«Mancherebbero i cioccolatini a forma di ghianda e di Babbo Natale».
L’anziana madre mi squadra per qualche istante, valuta brevemente l’ipotesi di comprarsi un trapano e un badile per regolare tutti i conti in sospeso ma poi, forse ricordando che ormai è Natale, sospira e dice:
«Domani li vado a prendere».
18.12.25
Milioni di Lady Gaga (1468)
Ho visto un video in cui Lady Gaga da Jimmy Kimmel dice che «se lavori duramente puoi fare qualunque cosa». Temo di dover precisare che questo non è esatto: se lavori duramente e sei Lady Gaga puoi fare qualunque cosa, dove con "qualunque cosa" si intende "avere successo in campo musicale e artistico" – e quello che ne può eventualmente conseguire – e non, per esempio, trovare la cura per il cancro, viaggiare nel tempo o vincere la Champions League con la Juventus. Le cose non basta volerle, non basta nemmeno fare tutto il necessario per averle, molte volte non basta nemmeno essere la persona con i requisiti giusti per averle, anzi quasi sempre. Penso dunque che la frase corretta sia: "Se vuoi una cosa e possiedi i requisiti giusti per averla e lavori duramente per averla e hai la fortuna giusta al momento giusto e anche dopo che l'hai avuta niente ti va davvero storto, allora forse sì, puoi fare qualunque cosa tra le cose che le suddette condizioni contemplano".
Naturalmente Lady Gaga voleva solo dire “nonostante tutte le difficoltà che io ho incontrato, io ce l’ho fatta! Viva me!”, ma molta gente non avrebbe apprezzato (io l’avrei trovato comunque interessante), e così ha cercato qualcosa di più universale. E, tuttavia, che consiglio è? “Se lavori duramente...". Grazie tante! Dimmi invece come realizzare qualunque cosa senza alzare un dito, è quello il consiglio di cui abbiamo bisogno.
Va infine notato che se tutti, solo con il duro lavoro, potessero diventare Lady Gaga, avremmo milioni di Lady Gaga, il che renderebbe non-interessante e non-speciale essere Lady Gaga, il che significherebbe per tutte le Lady Gaga del mondo ritrovarsi al punto di partenza, ossia non avercela fatta. Affinché Lady Gaga ce la faccia è necessario che milioni di aspiranti Lady Gaga falliscano.
17.12.25
Unico neo (1467)
Sto per comprare un paio di scarpe online, leggo le recensioni. Un tizio dà quattro stelle e dice: "Scarpe davvero belle e di ottima fattura. Unico neo: sono scomode per camminare".
16.12.25
E allora? (1466)
Dicono sempre che il tempo cambia le cose ma in realtà sei tu che devi cambiarle. Certe volte la gente lascia che lo stesso problema la renda infelice per anni quando basterebbe dire: “E allora?”. Questa è una delle cose che più mi piace dire: “E allora?”.
“Mia madre non mi amava”. E allora?
“Mio marito non mi vuole scopare?”. E allora?
“Ho successo ma sono solo”. E allora?
Non so come ho fatto a cavarmela per tanti anni prima di imparare questo trucco. Mi ci è voluto un sacco di tempo per impararlo, ma una volta imparato non lo si scorda più.
La filosofia di Andy Warhol, A. Warhol
“Mia madre non mi amava”. E allora?
“Mio marito non mi vuole scopare?”. E allora?
“Ho successo ma sono solo”. E allora?
Non so come ho fatto a cavarmela per tanti anni prima di imparare questo trucco. Mi ci è voluto un sacco di tempo per impararlo, ma una volta imparato non lo si scorda più.
La filosofia di Andy Warhol, A. Warhol
11.12.25
Il Mago dei cocktail (1465)
Una sera io e la mia amica Paola decidiamo di fare l’aperitivo in un nuovo bar dalle parti di San Paco Llorente il cui nome non lascia spazio a dubbi: Il Mago dei Cocktail. Io non lo conoscevo ma a sentire Paola il suddetto bar, o meglio il suo proprietario, cioè il Mago in persona, è famoso per la grande abilità nel preparare qualunque tipo di cocktail.
In genere bevo birra o vino, tuttavia, siccome Paola sembra molto eccitata per questa faccenda di provare finalmente un cocktail del Mago, e soprattutto considerando che mentre siamo in macchina mi dice «Tu non ordinerai mica una birra, vero?», le prometto che prenderò anch’io un cocktail.
Paola sembra allora soddisfatta e trascorre il resto del viaggio – otto minuti – a pensare a quale prendere: un Cosmopolitan? Un Bronx? Un White Russian? Un Grasshopper?
«Sai, forse dovremmo prendere prima qualcosa di molto semplice, per capire se ci sa fare davvero» dico saggiamente a Paola.
Quest’idea sembra piacerle.
«Allora prendiamo due Spritz» dice riponendo il cellulare in borsa.
Arrivati dal Mago, parcheggiamo nel piccolo spiazzo lì di fronte, completamente libero, e facciamo il nostro timido ingresso.
Il bar è vuoto.
«Mm» mugugno.
«Che hai?» mi fa Paola.
Non che mi piacciano il trambusto e le folle, però un locale vuoto mi fa sempre pensare a vasetti di olive aperti da settimane, affettati violacei, mosche in infradito e camicia hawaiana.
Poco male, penso, mi atterrò al piano di emergenza: solo alcol e patatine.
Dietro al bancone c’è un uomo sulla cinquantina, corpulento, testa a palla di biliardo, camicia scura e alluce valgo, quasi certamente il Mago dei cocktail. Quando ci vede entrare non risponde al nostro saluto e nemmeno sorride.
«Che allegria,» bisbiglio a Paola non appena seduti, «invece di un bar poteva aprire una camera mortuaria».
Paola non mi considera, sfoglia il menù e poi dice: «Non c’è lo Spritz».
«Come sarebbe?».
«Sarebbe che non c’è».
«Be’, avrà gli ingredienti per farlo. Oltre alle ovvie competenze» dico.
Paola non fa in tempo a rispondere che il Mago, faccia di pietra e sguardo torvo, è sopra di noi.
«Che vi porto?».
“Io prendo un’urna cineraria e un po’ d’incenso” penso mentre guardo Paola, incaricandola così di fare l’ordinazione.
Lei, titubante per l’assenza degli Spritz sul menù e forse intimorita per il fatto di essere finalmente al cospetto del Grande Mago dei cocktail, con la flebile voce di una timida topolina di campagna dice: «Prendiamo due banali Spritz».
Il Mago dei cocktail ci squadra con un sopracciglio alzato. Guarda prima Paola che, arrossendo, si limita a sorridergli sollevando lentamente il menù davanti al viso; poi guarda me, che però tra il locale vuoto, la totale mancanza di gentilezza, le olive quasi certamente ammuffite e questa boria come se invece di essere il Mago dei cocktail fosse il Mago dei trapianti di cuore, lo guardo e gli sorrido come a dire “Proprio così!”. Siccome il Mago è ancora un po’ incerto, aggiungo pure un «Già», soddisfatto.
A quel punto il Mago dice solo «Ok», poi abbassa il sopracciglio e se ne va, raggiungendo il fondo del locale e infilandosi dietro il bancone, fuori dalla nostra visuale. Dai rumori, possiamo intuire che ha cominciato a trafficare con gli ingredienti.
Paola allora si piega verso di me e sempre sottovoce mi fa: «Dici che l’abbiamo offeso?».
«Ma chi se ne frega» dico io. «Come fa la gente a lodare un posto del genere senza menzionare che il gestore è un musone cafone?».
«Ma dai, non è stato cafone,» dice Paola, «era solo spiazzato. Forse è stato come chiedere a Michelangelo di farci…».
«Due Spritz» dico.
«Esatto!» dice Paola, e ridiamo.
Passano quasi dieci minuti e il Mago non ci ha nemmeno portato una patatina.
«Ho fame…» dice Paola mordendo il menù.
«Anch’io» dico. «Magari posso andare alla pizzeria qui a fianco e mi faccio fare una schiacciatina con il crudo».
«E due Spritz, già che ci sei» dice Paola.
Ridiamo ancora. Continuiamo a parlare a voce bassa. Alla radio c’è Raf che canta Due. Paola, pur non avendo ancora toccato una goccia di alcol, impugna il cellulare come un microfono e canticchia ondeggiando sulla sedia: «Due banaaaliiii spritziiiini… beviaaaamo io e teeee…». Rido anch’io. Non ci staremo divertendo troppo per il Mago? Mi sono fatto l’idea che al Mago dia fastidio l’allegria.
Mentre Paola sta ancora cantando, il Mago sbuca per un attimo dal fondo del bancone per infilarsi in una porta con scritto Privato. Mentre passa ci tira un’occhiatina di rimprovero dalla distanza. Paola smette di cantare, posa il cellulare sul tavolino e ci diamo entrambi un contegno, come a scuola. Poi il Mago passa di nuovo, stavolta senza guardarci, e scompare dietro il bancone.
«Ma quanto ci mette?» mi chiede Paola.
«Starà facendo le bollicine a una a una» le dico.
Finalmente, qualche minuto dopo, il Mago esce dal bancone e si dirige verso di noi reggendo un vassoio. Non scorgo i due bicchieri, ma sul vassoio sembra esserci qualcosa di voluminoso che però non identifico. Quando arriva, dice «Ecco a voi…» e posa sul tavolino davanti a me e a Paola due ciotole. Dentro ciascuna ciotola, una banana ricoperta di gelato e panna montata.
Io e Paola ci paralizziamo. Il Mago se ne va senza neanche darci la possibilità di aprire bocca.
Guardiamo le due ciotole, ridendo sconcertati.
«Ma com’è possibile?!» dico sottovoce a Paola.
«Non capisco…» dice Paola, che poi però realizza: «Aspetta… è perché ho detto “due banali Spritz” e lui ha capito due “Banana Split”!».
A quel punto quasi soffochiamo dal ridere. Cerchiamo però di non farci sentire dal Mago. Paola si prende il pullover e se lo tira fin sopra la testa. Io mi piego su me stesso, sperando di chiudermi a palla e rotolare via come una corrierina. Intanto le Banana Split cominciano a squagliarsi.
«Che facciamo? Dobbiamo dirglielo?» mi chiede Paola. Ogni tanto il Mago butta un’occhiatina dal bancone. Forse penserà che siamo drogati, penso.
Di norma non mi faccio scrupoli a far notare un errore, ma in questo caso la situazione è anomala, quasi surreale: siamo gli unici due avventori, il Mago sembra uno che non vede l’ora di rompere il grugno a qualcuno e la Banana Split non contiene alcol, che avrebbe potuto rendermi baldanzoso. Anche Paola in genere è battagliera, ma per qualche ragione di fronte al Mago sembra in soggezione.
«Glielo puoi dire tu?» mi chiede.
«Guarda,» le dico, «preferisco pagare e andarmene e non tornare mai più. Forse preferisco andarmene senza pagare. Essere inseguito, catturato e arrestato. E non tornare mai più».
Paola sospira e assaggia il gelato.
«Mm, però è buono» dice.
Assaggio anch’io il gelato. Be’, penso, come potrebbe non essere buono? Infatti lo è.
Alla fine le dico: «In fondo lui non sa che non abbiamo avuto il coraggio di dirgli che aveva sbagliato, no? Pensa che siamo entrati nel suo bar a dicembre per mangiarci due Banana Split, alla faccia della sua bravura nel fare cocktail. “Questi qui hanno fegato”, penserà».
«Giusto» dice Paola. «Dici che ci ammira?».
«Non esageriamo. Ora però non ci resta che mangiarle, pagare e andarcene, e il nostro onore è salvo».
«E non raccontarlo mai a nessuno» dice Paola prendendo un po’ di panna montata col cucchiaio.
«Esatto» dico io.
Il giorno dopo, mentre beviamo una birra e un banale Spritz al Cerveza, raccontiamo tutto alla nostra comune amica Carla.
Carla ascolta la storia impassibile, fumando una sigaretta e fissandoci, gelida.
Quando abbiamo finito, soffia una nuvola di fumo e dice: «Perché non avete detto che si era sbagliato?».
Io e Paola ci guardiamo e non troviamo una buona risposta diversa da: “Abbiamo avuto paura del Mago”. Perciò alziamo le spalle.
Carla scuote la testa. Non c’è dubbio che lei avrebbe detto al Mago che le Banana Split se le poteva mangiare lui, ma solo dopo averle fatto gli Spritz richiesti. E il Mago avrebbe obbedito. Forse alla fine le avrebbe offerto gli Spritz, scusandosi. Poi avrebbe cercato di fare il simpatico, perché tutti cercano di fare i simpatici con Carla. Carla avrebbe assistito alla scena senza sorridere, quindi se ne sarebbe andata senza più far ritorno.
Tuttavia, se avessi provato io a impormi, sono certo che il Mago, arrotolandosi le maniche e affilando una mezzaluna, mi avrebbe detto che le quattordici Banana Split andavano pagate. Forse anche mangiate. “Come quattordici?” avrei detto io. “Adesso sono quindici, signorino” avrebbe detto lui. “Più che giusto” avrei detto io. O forse avrebbe preso un bastoncino per cocktail e usandolo come bacchetta mi avrebbe trasformato in un cumulo di panna.
Lo sguardo di Carla ci sembra una seconda, immeritata mortificazione.
Così nei giorni successivi tra me e Paola occorre un fitto scambio di messaggi durante i quali svisceriamo la faccenda da un punto di vista etico, sociologico, antropologico e psicologico arrivando alla conclusione che, primo, ci siamo comportati da vero signore e vera signora e, secondo, giunti alla nostra età forse non possiamo più accettare di avere paura di un barista: Paola aveva detto “due banali Spritz”. Chiaro e semplice. E se il Mago ha le orecchie piene di cerume (con cui probabilmente guarnisce le Banana Split), non è certo affar nostro.
Durante una telefonata in cui ci assolviamo e ringalluzziamo a vicenda, veniamo infine a capo della questione.
«Avremmo dovuto dirgli: “E questi cosa sarebbero?”» dice Paola. «”Abbiamo chiesto due Spritz. O siamo in una gelateria? Aspetti che vado a vedere l’insegna, fuori. Magari ho letto male e c’è scritto Il Mago dei gelati”».
«Esatto! O Il Mago delle Banana Split!» dico io trascinato dal piglio e dal carattere di questa piccola condottiera.
«O il Bar Nana Split» dice Paola.
Rido. «E se lui avesse protestato,» dico poi, «io l’avrei preso per il colletto della camicia e avrei detto: “Sono pure allergico alle banane!».
«No, Joey,» mi dice Paola, «non dobbiamo mentire né usare espedienti. La cosa è semplice: lui sbaglia l’ordinazione e noi, gentilmente ma con fermezza, gli facciamo notare l’errore. Siamo clienti, eh! Paghiamo!».
«Il cliente ha sempre ragione!» dico io.
«Giusto!» dice Paola.
Siamo molto soddisfatti di noi. Abbiamo avuto una piccola incertezza, è vero, ma ora sappiamo come agire in situazioni simili. Sono finiti i tempi in cui un Mago dei gelati qualunque può metterci i piedi in testa!
«Ah, Paola, tornassi indietro non esiterei un istante! Peccato che la risposta giusta ti venga sempre dopo, vero?» dico appena prima di salutarla e mettermi a dormire e sognare di essere alla guida di un esercito di banane pronte a conquistare il mondo.
«Be’, ma noi possiamo tornare indietro» dice Paola.
Questa frase mi fa passare il sonno di colpo.
«Cioè?».
«Cioè domani noi due torniamo dal Mago, ordiniamo due banali Spritz e se lui ci porta ancora due Banana Split gli facciamo vedere chi è che comanda». «Be’,» provo a dire io, «ma… ma non sbaglierà di nuovo e poi...».
E Paola: «Lascia fare a me».
Così il giorno dopo torniamo dal Mago.
Il locale è sempre vuoto, lui è sempre allegro come un becchino che debba seppellire sé stesso e noi ci sediamo al medesimo tavolo. Questa volta Paola non consulta il menù, attende solo l’arrivo del Mago, che dopo un paio di minuti è da noi.
Paola, come mi ha spiegato in macchina, fa la stessa ordinazione con la stessa impercettibile voce da topolina afona. Aggiunge pure un discutibile: «Come l’altra volta».
Il Mago a questo giro non alza il sopracciglio, non esita. Gira i tacchi e se ne va.
Dopo dieci minuti, eccolo con il vassoio e, per la gioia di Paola, ci mette sul tavolino altre due magnifiche Banana Split. Sembrano più colorate e invitanti dell’altro giorno. Che ci stia prendendo gusto? Forse sono un gelataio, starà pensando. E immagina il suo bar riempirsi di famigliole e, fuori, una nuova insegna colorata: Il Mago del gelato. Oppure, starà pensando, ‘sta cosa di chiamarmi da solo Mago m’ha portato sfiga. Ci vuole una scritta semplice, umile: Gelato. Oppure: Qui, gelato. Se vi va.
Non sa però che i suoi sogni di rinascita stanno per andare in frantumi.
Paola mi guarda come a dire: vai.
Io la guardo come a dire: vai pure tu.
Lei mi guarda come a dire: vai!!!
Io la guardo come a dire: ma perché devo andare io? L’idea è stata tua! E poi guardo il Mago per dire: signor Mago, l’idea è stata sua, non mia!
Il Mago mi guarda come a dire: ho proprio voglia di spaccare un bel grugno occhialuto.
Alla fine dico: «Ehm, sì, signor Mago, scusi, ci sarebbe…».
Paola tossisce per richiamarmi.
«Cioè… non ci sarebbe… c’è lo stesso errore della volta scorsa».
«Che errore?» dice il Mago, secco.
Guardo Paola come a dire: qui si mette male.
Paola mi guarda come a dire: ho notato, ma ormai siamo in ballo, anzi sei in ballo, anzi ma chi ti conosce?
Dico al Mago: «Noi abbiamo detto… cioè la mia amica qui ha detto, se non ricordo male, “due banali Spritz”, non “due Banana Split” e quindi…».
Il Mago dice: «Lo so».
E io: «Ah». Poi, rivolto a Paola: «Lo sa».
E Paola: «Ah, ecco».
«Era giusto un dubbio che ci era venuto» dico al Mago. «Ci scusi» dico. «Grazie» aggiungo.
Il Mago non dice altro e se ne va.
Io e Paola allora ci guardiamo, allarghiamo le braccia come a dire “be’, abbiamo fatto il possibile, no?” e poi, senza fiatare, ci mangiamo le Banana Split.
(Buonissime, tra l’altro).
In genere bevo birra o vino, tuttavia, siccome Paola sembra molto eccitata per questa faccenda di provare finalmente un cocktail del Mago, e soprattutto considerando che mentre siamo in macchina mi dice «Tu non ordinerai mica una birra, vero?», le prometto che prenderò anch’io un cocktail.
Paola sembra allora soddisfatta e trascorre il resto del viaggio – otto minuti – a pensare a quale prendere: un Cosmopolitan? Un Bronx? Un White Russian? Un Grasshopper?
«Sai, forse dovremmo prendere prima qualcosa di molto semplice, per capire se ci sa fare davvero» dico saggiamente a Paola.
Quest’idea sembra piacerle.
«Allora prendiamo due Spritz» dice riponendo il cellulare in borsa.
Arrivati dal Mago, parcheggiamo nel piccolo spiazzo lì di fronte, completamente libero, e facciamo il nostro timido ingresso.
Il bar è vuoto.
«Mm» mugugno.
«Che hai?» mi fa Paola.
Non che mi piacciano il trambusto e le folle, però un locale vuoto mi fa sempre pensare a vasetti di olive aperti da settimane, affettati violacei, mosche in infradito e camicia hawaiana.
Poco male, penso, mi atterrò al piano di emergenza: solo alcol e patatine.
Dietro al bancone c’è un uomo sulla cinquantina, corpulento, testa a palla di biliardo, camicia scura e alluce valgo, quasi certamente il Mago dei cocktail. Quando ci vede entrare non risponde al nostro saluto e nemmeno sorride.
«Che allegria,» bisbiglio a Paola non appena seduti, «invece di un bar poteva aprire una camera mortuaria».
Paola non mi considera, sfoglia il menù e poi dice: «Non c’è lo Spritz».
«Come sarebbe?».
«Sarebbe che non c’è».
«Be’, avrà gli ingredienti per farlo. Oltre alle ovvie competenze» dico.
Paola non fa in tempo a rispondere che il Mago, faccia di pietra e sguardo torvo, è sopra di noi.
«Che vi porto?».
“Io prendo un’urna cineraria e un po’ d’incenso” penso mentre guardo Paola, incaricandola così di fare l’ordinazione.
Lei, titubante per l’assenza degli Spritz sul menù e forse intimorita per il fatto di essere finalmente al cospetto del Grande Mago dei cocktail, con la flebile voce di una timida topolina di campagna dice: «Prendiamo due banali Spritz».
Il Mago dei cocktail ci squadra con un sopracciglio alzato. Guarda prima Paola che, arrossendo, si limita a sorridergli sollevando lentamente il menù davanti al viso; poi guarda me, che però tra il locale vuoto, la totale mancanza di gentilezza, le olive quasi certamente ammuffite e questa boria come se invece di essere il Mago dei cocktail fosse il Mago dei trapianti di cuore, lo guardo e gli sorrido come a dire “Proprio così!”. Siccome il Mago è ancora un po’ incerto, aggiungo pure un «Già», soddisfatto.
A quel punto il Mago dice solo «Ok», poi abbassa il sopracciglio e se ne va, raggiungendo il fondo del locale e infilandosi dietro il bancone, fuori dalla nostra visuale. Dai rumori, possiamo intuire che ha cominciato a trafficare con gli ingredienti.
Paola allora si piega verso di me e sempre sottovoce mi fa: «Dici che l’abbiamo offeso?».
«Ma chi se ne frega» dico io. «Come fa la gente a lodare un posto del genere senza menzionare che il gestore è un musone cafone?».
«Ma dai, non è stato cafone,» dice Paola, «era solo spiazzato. Forse è stato come chiedere a Michelangelo di farci…».
«Due Spritz» dico.
«Esatto!» dice Paola, e ridiamo.
Passano quasi dieci minuti e il Mago non ci ha nemmeno portato una patatina.
«Ho fame…» dice Paola mordendo il menù.
«Anch’io» dico. «Magari posso andare alla pizzeria qui a fianco e mi faccio fare una schiacciatina con il crudo».
«E due Spritz, già che ci sei» dice Paola.
Ridiamo ancora. Continuiamo a parlare a voce bassa. Alla radio c’è Raf che canta Due. Paola, pur non avendo ancora toccato una goccia di alcol, impugna il cellulare come un microfono e canticchia ondeggiando sulla sedia: «Due banaaaliiii spritziiiini… beviaaaamo io e teeee…». Rido anch’io. Non ci staremo divertendo troppo per il Mago? Mi sono fatto l’idea che al Mago dia fastidio l’allegria.
Mentre Paola sta ancora cantando, il Mago sbuca per un attimo dal fondo del bancone per infilarsi in una porta con scritto Privato. Mentre passa ci tira un’occhiatina di rimprovero dalla distanza. Paola smette di cantare, posa il cellulare sul tavolino e ci diamo entrambi un contegno, come a scuola. Poi il Mago passa di nuovo, stavolta senza guardarci, e scompare dietro il bancone.
«Ma quanto ci mette?» mi chiede Paola.
«Starà facendo le bollicine a una a una» le dico.
Finalmente, qualche minuto dopo, il Mago esce dal bancone e si dirige verso di noi reggendo un vassoio. Non scorgo i due bicchieri, ma sul vassoio sembra esserci qualcosa di voluminoso che però non identifico. Quando arriva, dice «Ecco a voi…» e posa sul tavolino davanti a me e a Paola due ciotole. Dentro ciascuna ciotola, una banana ricoperta di gelato e panna montata.
Io e Paola ci paralizziamo. Il Mago se ne va senza neanche darci la possibilità di aprire bocca.
Guardiamo le due ciotole, ridendo sconcertati.
«Ma com’è possibile?!» dico sottovoce a Paola.
«Non capisco…» dice Paola, che poi però realizza: «Aspetta… è perché ho detto “due banali Spritz” e lui ha capito due “Banana Split”!».
A quel punto quasi soffochiamo dal ridere. Cerchiamo però di non farci sentire dal Mago. Paola si prende il pullover e se lo tira fin sopra la testa. Io mi piego su me stesso, sperando di chiudermi a palla e rotolare via come una corrierina. Intanto le Banana Split cominciano a squagliarsi.
«Che facciamo? Dobbiamo dirglielo?» mi chiede Paola. Ogni tanto il Mago butta un’occhiatina dal bancone. Forse penserà che siamo drogati, penso.
Di norma non mi faccio scrupoli a far notare un errore, ma in questo caso la situazione è anomala, quasi surreale: siamo gli unici due avventori, il Mago sembra uno che non vede l’ora di rompere il grugno a qualcuno e la Banana Split non contiene alcol, che avrebbe potuto rendermi baldanzoso. Anche Paola in genere è battagliera, ma per qualche ragione di fronte al Mago sembra in soggezione.
«Glielo puoi dire tu?» mi chiede.
«Guarda,» le dico, «preferisco pagare e andarmene e non tornare mai più. Forse preferisco andarmene senza pagare. Essere inseguito, catturato e arrestato. E non tornare mai più».
Paola sospira e assaggia il gelato.
«Mm, però è buono» dice.
Assaggio anch’io il gelato. Be’, penso, come potrebbe non essere buono? Infatti lo è.
Alla fine le dico: «In fondo lui non sa che non abbiamo avuto il coraggio di dirgli che aveva sbagliato, no? Pensa che siamo entrati nel suo bar a dicembre per mangiarci due Banana Split, alla faccia della sua bravura nel fare cocktail. “Questi qui hanno fegato”, penserà».
«Giusto» dice Paola. «Dici che ci ammira?».
«Non esageriamo. Ora però non ci resta che mangiarle, pagare e andarcene, e il nostro onore è salvo».
«E non raccontarlo mai a nessuno» dice Paola prendendo un po’ di panna montata col cucchiaio.
«Esatto» dico io.
Il giorno dopo, mentre beviamo una birra e un banale Spritz al Cerveza, raccontiamo tutto alla nostra comune amica Carla.
Carla ascolta la storia impassibile, fumando una sigaretta e fissandoci, gelida.
Quando abbiamo finito, soffia una nuvola di fumo e dice: «Perché non avete detto che si era sbagliato?».
Io e Paola ci guardiamo e non troviamo una buona risposta diversa da: “Abbiamo avuto paura del Mago”. Perciò alziamo le spalle.
Carla scuote la testa. Non c’è dubbio che lei avrebbe detto al Mago che le Banana Split se le poteva mangiare lui, ma solo dopo averle fatto gli Spritz richiesti. E il Mago avrebbe obbedito. Forse alla fine le avrebbe offerto gli Spritz, scusandosi. Poi avrebbe cercato di fare il simpatico, perché tutti cercano di fare i simpatici con Carla. Carla avrebbe assistito alla scena senza sorridere, quindi se ne sarebbe andata senza più far ritorno.
Tuttavia, se avessi provato io a impormi, sono certo che il Mago, arrotolandosi le maniche e affilando una mezzaluna, mi avrebbe detto che le quattordici Banana Split andavano pagate. Forse anche mangiate. “Come quattordici?” avrei detto io. “Adesso sono quindici, signorino” avrebbe detto lui. “Più che giusto” avrei detto io. O forse avrebbe preso un bastoncino per cocktail e usandolo come bacchetta mi avrebbe trasformato in un cumulo di panna.
Lo sguardo di Carla ci sembra una seconda, immeritata mortificazione.
Così nei giorni successivi tra me e Paola occorre un fitto scambio di messaggi durante i quali svisceriamo la faccenda da un punto di vista etico, sociologico, antropologico e psicologico arrivando alla conclusione che, primo, ci siamo comportati da vero signore e vera signora e, secondo, giunti alla nostra età forse non possiamo più accettare di avere paura di un barista: Paola aveva detto “due banali Spritz”. Chiaro e semplice. E se il Mago ha le orecchie piene di cerume (con cui probabilmente guarnisce le Banana Split), non è certo affar nostro.
Durante una telefonata in cui ci assolviamo e ringalluzziamo a vicenda, veniamo infine a capo della questione.
«Avremmo dovuto dirgli: “E questi cosa sarebbero?”» dice Paola. «”Abbiamo chiesto due Spritz. O siamo in una gelateria? Aspetti che vado a vedere l’insegna, fuori. Magari ho letto male e c’è scritto Il Mago dei gelati”».
«Esatto! O Il Mago delle Banana Split!» dico io trascinato dal piglio e dal carattere di questa piccola condottiera.
«O il Bar Nana Split» dice Paola.
Rido. «E se lui avesse protestato,» dico poi, «io l’avrei preso per il colletto della camicia e avrei detto: “Sono pure allergico alle banane!».
«No, Joey,» mi dice Paola, «non dobbiamo mentire né usare espedienti. La cosa è semplice: lui sbaglia l’ordinazione e noi, gentilmente ma con fermezza, gli facciamo notare l’errore. Siamo clienti, eh! Paghiamo!».
«Il cliente ha sempre ragione!» dico io.
«Giusto!» dice Paola.
Siamo molto soddisfatti di noi. Abbiamo avuto una piccola incertezza, è vero, ma ora sappiamo come agire in situazioni simili. Sono finiti i tempi in cui un Mago dei gelati qualunque può metterci i piedi in testa!
«Ah, Paola, tornassi indietro non esiterei un istante! Peccato che la risposta giusta ti venga sempre dopo, vero?» dico appena prima di salutarla e mettermi a dormire e sognare di essere alla guida di un esercito di banane pronte a conquistare il mondo.
«Be’, ma noi possiamo tornare indietro» dice Paola.
Questa frase mi fa passare il sonno di colpo.
«Cioè?».
«Cioè domani noi due torniamo dal Mago, ordiniamo due banali Spritz e se lui ci porta ancora due Banana Split gli facciamo vedere chi è che comanda». «Be’,» provo a dire io, «ma… ma non sbaglierà di nuovo e poi...».
E Paola: «Lascia fare a me».
Così il giorno dopo torniamo dal Mago.
Il locale è sempre vuoto, lui è sempre allegro come un becchino che debba seppellire sé stesso e noi ci sediamo al medesimo tavolo. Questa volta Paola non consulta il menù, attende solo l’arrivo del Mago, che dopo un paio di minuti è da noi.
Paola, come mi ha spiegato in macchina, fa la stessa ordinazione con la stessa impercettibile voce da topolina afona. Aggiunge pure un discutibile: «Come l’altra volta».
Il Mago a questo giro non alza il sopracciglio, non esita. Gira i tacchi e se ne va.
Dopo dieci minuti, eccolo con il vassoio e, per la gioia di Paola, ci mette sul tavolino altre due magnifiche Banana Split. Sembrano più colorate e invitanti dell’altro giorno. Che ci stia prendendo gusto? Forse sono un gelataio, starà pensando. E immagina il suo bar riempirsi di famigliole e, fuori, una nuova insegna colorata: Il Mago del gelato. Oppure, starà pensando, ‘sta cosa di chiamarmi da solo Mago m’ha portato sfiga. Ci vuole una scritta semplice, umile: Gelato. Oppure: Qui, gelato. Se vi va.
Non sa però che i suoi sogni di rinascita stanno per andare in frantumi.
Paola mi guarda come a dire: vai.
Io la guardo come a dire: vai pure tu.
Lei mi guarda come a dire: vai!!!
Io la guardo come a dire: ma perché devo andare io? L’idea è stata tua! E poi guardo il Mago per dire: signor Mago, l’idea è stata sua, non mia!
Il Mago mi guarda come a dire: ho proprio voglia di spaccare un bel grugno occhialuto.
Alla fine dico: «Ehm, sì, signor Mago, scusi, ci sarebbe…».
Paola tossisce per richiamarmi.
«Cioè… non ci sarebbe… c’è lo stesso errore della volta scorsa».
«Che errore?» dice il Mago, secco.
Guardo Paola come a dire: qui si mette male.
Paola mi guarda come a dire: ho notato, ma ormai siamo in ballo, anzi sei in ballo, anzi ma chi ti conosce?
Dico al Mago: «Noi abbiamo detto… cioè la mia amica qui ha detto, se non ricordo male, “due banali Spritz”, non “due Banana Split” e quindi…».
Il Mago dice: «Lo so».
E io: «Ah». Poi, rivolto a Paola: «Lo sa».
E Paola: «Ah, ecco».
«Era giusto un dubbio che ci era venuto» dico al Mago. «Ci scusi» dico. «Grazie» aggiungo.
Il Mago non dice altro e se ne va.
Io e Paola allora ci guardiamo, allarghiamo le braccia come a dire “be’, abbiamo fatto il possibile, no?” e poi, senza fiatare, ci mangiamo le Banana Split.
(Buonissime, tra l’altro).
4.12.25
Loro lo sentono (1464)
Ieri ho guardato Rush, il film del 2013 sulla rivalità tra i due piloti di Formula 1 Niki Lauda e James Hunt. Stando ai voti su Imdb (8.1 secondo il pubblico, come Barry Lyndon, e 7.4 per la critica, come Inception) e alle recensioni, anche di testate molto note, sembra proprio essere un capolavoro, sentite qua il Telegraph: "Una sceneggiatura superba". Wow, penso, proprio quello che mi ci vuole. Così comincio la visione. Tuttavia, dopo tre minuti James dice, serio, con voce profonda: «Le donne vanno matte per noi piloti non per quello che facciamo, non perché giriamo ore e ore in tondo su una macchina, no, è per la nostra vicinanza con la morte, e più sei vicino alla morte, più ti senti vivo… più sei vivo. E loro questo lo sentono». Frase che mi fa molto ridere (così come quel "e loro questo lo sentono", che sembra che stia parlando del bestiame, che sente quando sta per arrivare un temporale). Comunque sia, mentre guardo questa prima scena in cui James, pilota sciupafemmine, dopo pochi minuti fa sesso con un'infermiera battendo quasi ogni record in un film non pornografico, e forse anche per i film pornografici, e sto già per interrompere, mi dico "Mm, forse posso imparare molto in fatto di donne da questo film", e questo perché quando l'infermiera gli chiede «Oh, James, come ti sei fatto questa ferita?», che ci fossi stato io le avrei raccontato tutto per filo e per segno parlando a macchinetta e tempestandola poi di domande sui tempi di guarigione, modalità di medicazione e possibili conseguenze, approfittando poi dell'occasione per farmi controllare anche qualche altro piccolo disturbo e magari fare un prelievo per vedere i livelli di vitamina D, James, con voce da duro, le dice: «Non sono affari tuoi». E lì ho pensato: “Hai capito? Farò così anch'io!”. Vi saprò dire se funziona.
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