Il Mago dei cocktail (1465)

Una sera io e la mia amica Paola decidiamo di fare l’aperitivo in un nuovo bar dalle parti di San Paco Llorente il cui nome non lascia spazio a dubbi: Il Mago dei Cocktail. Io non lo conoscevo ma a sentire Paola il suddetto bar, o meglio il suo proprietario, cioè il Mago in persona, è famoso per la grande abilità nel preparare qualunque tipo di cocktail.
In genere bevo birra o vino, tuttavia, siccome Paola sembra molto eccitata per questa faccenda di provare finalmente un cocktail del Mago, e soprattutto considerando che mentre siamo in macchina mi dice «Tu non ordinerai mica una birra, vero?», le prometto che prenderò anch’io un cocktail.
Paola sembra allora soddisfatta e trascorre il resto del viaggio – otto minuti – a pensare a quale prendere: un Cosmopolitan? Un Bronx? Un White Russian? Un Grasshopper?
«Sai, forse dovremmo prendere prima qualcosa di molto semplice, per capire se ci sa fare davvero» dico saggiamente a Paola.
Quest’idea sembra piacerle.
«Allora prendiamo due Spritz» dice riponendo il cellulare in borsa.

Arrivati dal Mago, parcheggiamo nel piccolo spiazzo lì di fronte, completamente libero, e facciamo il nostro timido ingresso.
Il bar è vuoto.
«Mm» mugugno.
«Che hai?» mi fa Paola.
Non che mi piacciano il trambusto e le folle, però un locale vuoto mi fa sempre pensare a vasetti di olive aperti da settimane, affettati violacei, mosche in infradito e camicia hawaiana.
Poco male, penso, mi atterrò al piano di emergenza: solo alcol e patatine.

Dietro al bancone c’è un uomo sulla cinquantina, corpulento, testa a palla di biliardo, camicia scura e alluce valgo, quasi certamente il Mago dei cocktail. Quando ci vede entrare non risponde al nostro saluto e nemmeno sorride.
«Che allegria,» bisbiglio a Paola non appena seduti, «invece di un bar poteva aprire una camera mortuaria».
Paola non mi considera, sfoglia il menù e poi dice: «Non c’è lo Spritz».
«Come sarebbe?».
«Sarebbe che non c’è».
«Be’, avrà gli ingredienti per farlo. Oltre alle ovvie competenze» dico.
Paola non fa in tempo a rispondere che il Mago, faccia di pietra e sguardo torvo, è sopra di noi.
«Che vi porto?».
“Io prendo un’urna cineraria e un po’ d’incenso” penso mentre guardo Paola, incaricandola così di fare l’ordinazione.
Lei, titubante per l’assenza degli Spritz sul menù e forse intimorita per il fatto di essere finalmente al cospetto del Grande Mago dei cocktail, con la flebile voce di una timida topolina di campagna dice: «Prendiamo due banali Spritz».
Il Mago dei cocktail ci squadra con un sopracciglio alzato. Guarda prima Paola che, arrossendo, si limita a sorridergli sollevando lentamente il menù davanti al viso; poi guarda me, che però tra il locale vuoto, la totale mancanza di gentilezza, le olive quasi certamente ammuffite e questa boria come se invece di essere il Mago dei cocktail fosse il Mago dei trapianti di cuore, lo guardo e gli sorrido come a dire “Proprio così!”. Siccome il Mago è ancora un po’ incerto, aggiungo pure un «Già», soddisfatto.
A quel punto il Mago dice solo «Ok», poi abbassa il sopracciglio e se ne va, raggiungendo il fondo del locale e infilandosi dietro il bancone, fuori dalla nostra visuale. Dai rumori, possiamo intuire che ha cominciato a trafficare con gli ingredienti.
Paola allora si piega verso di me e sempre sottovoce mi fa: «Dici che l’abbiamo offeso?».
«Ma chi se ne frega» dico io. «Come fa la gente a lodare un posto del genere senza menzionare che il gestore è un musone cafone?».
«Ma dai, non è stato cafone,» dice Paola, «era solo spiazzato. Forse è stato come chiedere a Michelangelo di farci…».
«Due Spritz» dico.
«Esatto!» dice Paola, e ridiamo.

Passano quasi dieci minuti e il Mago non ci ha nemmeno portato una patatina.
«Ho fame…» dice Paola mordendo il menù.
«Anch’io» dico. «Magari posso andare alla pizzeria qui a fianco e mi faccio fare una schiacciatina con il crudo».
«E due Spritz, già che ci sei» dice Paola.
Ridiamo ancora. Continuiamo a parlare a voce bassa. Alla radio c’è Raf che canta Due. Paola, pur non avendo ancora toccato una goccia di alcol, impugna il cellulare come un microfono e canticchia ondeggiando sulla sedia: «Due banaaaliiii spritziiiini… beviaaaamo io e teeee…». Rido anch’io. Non ci staremo divertendo troppo per il Mago? Mi sono fatto l’idea che al Mago dia fastidio l’allegria.
Mentre Paola sta ancora cantando, il Mago sbuca per un attimo dal fondo del bancone per infilarsi in una porta con scritto Privato. Mentre passa ci tira un’occhiatina di rimprovero dalla distanza. Paola smette di cantare, posa il cellulare sul tavolino e ci diamo entrambi un contegno, come a scuola. Poi il Mago passa di nuovo, stavolta senza guardarci, e scompare dietro il bancone.
«Ma quanto ci mette?» mi chiede Paola.
«Starà facendo le bollicine a una a una» le dico.
Finalmente, qualche minuto dopo, il Mago esce dal bancone e si dirige verso di noi reggendo un vassoio. Non scorgo i due bicchieri, ma sul vassoio sembra esserci qualcosa di voluminoso che però non identifico. Quando arriva, dice «Ecco a voi…» e posa sul tavolino davanti a me e a Paola due ciotole. Dentro ciascuna ciotola, una banana ricoperta di gelato e panna montata.
Io e Paola ci paralizziamo. Il Mago se ne va senza neanche darci la possibilità di aprire bocca.
Guardiamo le due ciotole, ridendo sconcertati.
«Ma com’è possibile?!» dico sottovoce a Paola.
«Non capisco…» dice Paola, che poi però realizza: «Aspetta… è perché ho detto “due banali Spritz” e lui ha capito due “Banana Split”!».
A quel punto quasi soffochiamo dal ridere. Cerchiamo però di non farci sentire dal Mago. Paola si prende il pullover e se lo tira fin sopra la testa. Io mi piego su me stesso, sperando di chiudermi a palla e rotolare via come una corrierina. Intanto le Banana Split cominciano a squagliarsi.
«Che facciamo? Dobbiamo dirglielo?» mi chiede Paola. Ogni tanto il Mago butta un’occhiatina dal bancone. Forse penserà che siamo drogati, penso.
Di norma non mi faccio scrupoli a far notare un errore, ma in questo caso la situazione è anomala, quasi surreale: siamo gli unici due avventori, il Mago sembra uno che non vede l’ora di rompere il grugno a qualcuno e la Banana Split non contiene alcol, che avrebbe potuto rendermi baldanzoso. Anche Paola in genere è battagliera, ma per qualche ragione di fronte al Mago sembra in soggezione.
«Glielo puoi dire tu?» mi chiede.
«Guarda,» le dico, «preferisco pagare e andarmene e non tornare mai più. Forse preferisco andarmene senza pagare. Essere inseguito, catturato e arrestato. E non tornare mai più».
Paola sospira e assaggia il gelato.
«Mm, però è buono» dice.
Assaggio anch’io il gelato. Be’, penso, come potrebbe non essere buono? Infatti lo è.
Alla fine le dico: «In fondo lui non sa che non abbiamo avuto il coraggio di dirgli che aveva sbagliato, no? Pensa che siamo entrati nel suo bar a dicembre per mangiarci due Banana Split, alla faccia della sua bravura nel fare cocktail. “Questi qui hanno fegato”, penserà».
«Giusto» dice Paola. «Dici che ci ammira?».
«Non esageriamo. Ora però non ci resta che mangiarle, pagare e andarcene, e il nostro onore è salvo».
«E non raccontarlo mai a nessuno» dice Paola prendendo un po’ di panna montata col cucchiaio.
«Esatto» dico io.

Il giorno dopo, mentre beviamo una birra e un banale Spritz al Cerveza, raccontiamo tutto alla nostra comune amica Carla.
Carla ascolta la storia impassibile, fumando una sigaretta e fissandoci, gelida.
Quando abbiamo finito, soffia una nuvola di fumo e dice: «Perché non avete detto che si era sbagliato?».
Io e Paola ci guardiamo e non troviamo una buona risposta diversa da: “Abbiamo avuto paura del Mago”. Perciò alziamo le spalle.
Carla scuote la testa. Non c’è dubbio che lei avrebbe detto al Mago che le Banana Split se le poteva mangiare lui, ma solo dopo averle fatto gli Spritz richiesti. E il Mago avrebbe obbedito. Forse alla fine le avrebbe offerto gli Spritz, scusandosi. Poi avrebbe cercato di fare il simpatico, perché tutti cercano di fare i simpatici con Carla. Carla avrebbe assistito alla scena senza sorridere, quindi se ne sarebbe andata senza più far ritorno.
Tuttavia, se avessi provato io a impormi, sono certo che il Mago, arrotolandosi le maniche e affilando una mezzaluna, mi avrebbe detto che le quattordici Banana Split andavano pagate. Forse anche mangiate. “Come quattordici?” avrei detto io. “Adesso sono quindici, signorino” avrebbe detto lui. “Più che giusto” avrei detto io. O forse avrebbe preso un bastoncino per cocktail e usandolo come bacchetta mi avrebbe trasformato in un cumulo di panna.
Lo sguardo di Carla ci sembra una seconda, immeritata mortificazione.

Così nei giorni successivi tra me e Paola occorre un fitto scambio di messaggi durante i quali svisceriamo la faccenda da un punto di vista etico, sociologico, antropologico e psicologico arrivando alla conclusione che, primo, ci siamo comportati da vero signore e vera signora e, secondo, giunti alla nostra età forse non possiamo più accettare di avere paura di un barista: Paola aveva detto “due banali Spritz”. Chiaro e semplice. E se il Mago ha le orecchie piene di cerume (con cui probabilmente guarnisce le Banana Split), non è certo affar nostro.
Durante una telefonata in cui ci assolviamo e ringalluzziamo a vicenda, veniamo infine a capo della questione.
«Avremmo dovuto dirgli: “E questi cosa sarebbero?”» dice Paola. «”Abbiamo chiesto due Spritz. O siamo in una gelateria? Aspetti che vado a vedere l’insegna, fuori. Magari ho letto male e c’è scritto Il Mago dei gelati”».
«Esatto! O Il Mago delle Banana Split!» dico io trascinato dal piglio e dal carattere di questa piccola condottiera.
«O il Bar Nana Split» dice Paola.
Rido. «E se lui avesse protestato,» dico poi, «io l’avrei preso per il colletto della camicia e avrei detto: “Sono pure allergico alle banane!».
«No, Eugenio,» mi dice Paola, «non dobbiamo mentire né usare espedienti. La cosa è semplice: lui sbaglia l’ordinazione e noi, gentilmente ma con fermezza, gli facciamo notare l’errore. Siamo clienti, eh! Paghiamo!».
«Il cliente ha sempre ragione!» dico io.
«Giusto!» dice Paola.
Siamo molto soddisfatti di noi. Abbiamo avuto una piccola incertezza, è vero, ma ora sappiamo come agire in situazioni simili. Sono finiti i tempi in cui un Mago dei gelati qualunque può metterci i piedi in testa!
«Ah, Paola, tornassi indietro non esiterei un istante! Peccato che la risposta giusta ti venga sempre dopo, vero?» dico appena prima di salutarla e mettermi a dormire e sognare di essere alla guida di un esercito di banane pronte a conquistare il mondo.
«Be’, ma noi possiamo tornare indietro» dice Paola.
Questa frase mi fa passare il sonno di colpo.
«Cioè?».
«Cioè domani noi due torniamo dal Mago, ordiniamo due banali Spritz e se lui ci porta ancora due Banana Split gli facciamo vedere chi è che comanda». «Be’,» provo a dire io, «ma… ma non sbaglierà di nuovo e poi...».
E Paola: «Lascia fare a me».

Così il giorno dopo torniamo dal Mago.
Il locale è sempre vuoto, lui è sempre allegro come un becchino che debba seppellire sé stesso e noi ci sediamo al medesimo tavolo. Questa volta Paola non consulta il menù, attende solo l’arrivo del Mago, che dopo un paio di minuti è da noi.
Paola, come mi ha spiegato in macchina, fa la stessa ordinazione con la stessa impercettibile voce da topolina afona. Aggiunge pure un discutibile: «Come l’altra volta».
Il Mago a questo giro non alza il sopracciglio, non esita. Gira i tacchi e se ne va.
Dopo dieci minuti, eccolo con il vassoio e, per la gioia di Paola, ci mette sul tavolino altre due magnifiche Banana Split. Sembrano più colorate e invitanti dell’altro giorno. Che ci stia prendendo gusto? Forse sono un gelataio, starà pensando. E immagina il suo bar riempirsi di famigliole e, fuori, una nuova insegna colorata: Il Mago del gelato. Oppure, starà pensando, ‘sta cosa di chiamarmi da solo Mago m’ha portato sfiga. Ci vuole una scritta semplice, umile: Gelato. Oppure: Qui, gelato. Se vi va.
Non sa però che i suoi sogni di rinascita stanno per andare in frantumi.
Paola mi guarda come a dire: vai.
Io la guardo come a dire: vai pure tu.
Lei mi guarda come a dire: vai!!!
Io la guardo come a dire: ma perché devo andare io? L’idea è stata tua! E poi guardo il Mago per dire: signor Mago, l’idea è stata sua, non mia!
Il Mago mi guarda come a dire: ho proprio voglia di spaccare un bel grugno occhialuto.
Alla fine dico: «Ehm, sì, signor Mago, scusi, ci sarebbe…».
Paola tossisce per richiamarmi.
«Cioè… non ci sarebbec’è lo stesso errore della volta scorsa».
«Che errore?» dice il Mago, secco.
Guardo Paola come a dire: qui si mette male.
Paola mi guarda come a dire: ho notato, ma ormai siamo in ballo, anzi sei in ballo, anzi ma chi ti conosce?
Dico al Mago: «Noi abbiamo detto… cioè la mia amica qui ha detto, se non ricordo male, “due banali Spritz”, non “due Banana Split” e quindi…».
Il Mago dice: «Lo so».
E io: «Ah». Poi, rivolto a Paola: «Lo sa».
E Paola: «Ah, ecco».
«Era giusto un dubbio che ci era venuto» dico al Mago. «Ci scusi» dico. «Grazie» aggiungo.
Il Mago non dice altro e se ne va.
Io e Paola allora ci guardiamo, allarghiamo le braccia come a dire “be’, abbiamo fatto il possibile, no?” e poi, senza fiatare, ci mangiamo le Banana Split.
(Buonissime, tra l’altro).

4.12.25

Loro lo sentono (1464)

Ieri ho guardato Rush, il film del 2013 sulla rivalità tra i due piloti di Formula 1 Niki Lauda e James Hunt. Stando ai voti su Imdb (8.1 secondo il pubblico, come Barry Lyndon, e 7.4 per la critica, come Inception) e alle recensioni, anche di testate molto note, sembra proprio essere un capolavoro, sentite qua il Telegraph: "Una sceneggiatura superba". Wow, penso, proprio quello che mi ci vuole. Così comincio la visione. Tuttavia, dopo tre minuti James dice, serio, con voce profonda: «Le donne vanno matte per noi piloti non per quello che facciamo, non perché giriamo ore e ore in tondo su una macchina, no, è per la nostra vicinanza con la morte, e più sei vicino alla morte, più ti senti vivo… più sei vivo. E loro questo lo sentono». Frase che mi fa molto ridere (così come quel "e loro questo lo sentono", che sembra che stia parlando del bestiame, che sente quando sta per arrivare un temporale). Comunque sia, mentre guardo questa prima scena in cui James, pilota sciupafemmine, dopo pochi minuti fa sesso con un'infermiera battendo quasi ogni record in un film non pornografico, e forse anche per i film pornografici, e sto già per interrompere, mi dico "Mm, forse posso imparare molto in fatto di donne da questo film", e questo perché quando l'infermiera gli chiede «Oh, James, come ti sei fatto questa ferita?», che ci fossi stato io le avrei raccontato tutto per filo e per segno parlando a macchinetta e tempestandola poi di domande sui tempi di guarigione, modalità di medicazione e possibili conseguenze, approfittando poi dell'occasione per farmi controllare anche qualche altro piccolo disturbo e magari fare un prelievo per vedere i livelli di vitamina D, James, con voce da duro, le dice: «Non sono affari tuoi». E lì ho pensato: “Hai capito? Farò così anch'io!”. Vi saprò dire se funziona.

1463.

Sul nuovo numero di Wu magazine, qui, spiego come riconoscere il vero amore.

25.11.25

Legge di Paola sui mandarini (1462)

Colazione con le mie amiche Paola e Carla. Mentre leggo una cosa sul cellulare, capto questo frammento di conversazione tra le due:

Paola: «L'ultimo mandarino che mangi è sempre il più cattivo».
Carla: «Anche se ne mangi uno solo?»
Paola (ride, poi): «Ho anche provato a fregarlo prendendo tre mandarini e mangiandone solo due, ma non ha funzionato».
Carla: «A fregare chi?».
Paola: «Il meccanismo dei mandarini».
Carla «Prova a mangiare l'ultimo per primo».
Paola: «Non ci avevo pensato».
Carla: «Comunque adesso ho mangiato tre mandarini e quello cattivo era il secondo».
Paola: «Li avrai mangiati nell'ordine sbagliato».

18.11.25

La souris-sur-mer (1461)

Incontro la signora Matilde, una delle mie vicine, donna colta, elegante e raffinata. Mi fa: «Eugenio, posso farti una domanda?». Penso: "Mi vorrà chiedere quale libro ho maggiormente apprezzato della pentalogia autobiografica di Thomas Bernhard. O mi vorrà chiedere se preferisco i blanc de noirs o i blanc de blancs. O mi vorrà chiedere se voglio fuggire con lei, magari a Trouville-sur-Mer". «Prego» le dico. E lei: «Secondo te posso buttare un topo morto nell'umido?». Sorrido. Non faccio domande. Sfilo il cellulare dalla tasca e dico: «Cerchiamo nell'applicazione dei conferimenti! Dunque, topo morto, topo morto… no, non c'è. Proviamo solo topo? Niente. Roditore? No, niente. Proviamo salma… non c'è. Proviamo cadavere… nemmeno. Proviamo carcassa? Ah, carcassa c'è!». E lei: «Davvero?». E io: «Sì, ecco qui: carcassa di animale e carcassa d'auto». «E dove dice di buttarla?» mi chiede. E io: «Dice di chiamare l'ASL». «Per un topo morto?» mi fa lei, seccata, alzando un sopracciglio. E io: «Guarda, anch'io sono sorpreso, tra l'altro fino al 541 d.C. si buttavano nel bidoncino dell'organico, ma poi, sai, quella faccenduola della peste bubbonica… e quindi niente da fare: ASL». E lei: «E se lo seppellisco in giardino?». E io: «Mm, un cimitero di roditori, che deliziosa idea! Ma temo che l'ASL, sempre lei, non ne sarebbe entusiasta». Allora Matilde: «Va be', vedrò. Grazie, eh». E io, sollevando leggermente la tesa del cilindro: «Per servirti!».

17.11.25

I dolcetti (1460)

Una mattina suono il citofono di casa della mia amica Paola.
Quando si apre la porta, però, sulla soglia non si presenta Paola, bensì una versione miniaturizzata di Gary Oldman in Dracula: la nonna di Paola.
La cosa mi sorprende relativamente perché so che la vecchiarella, quando le gira, si presenta con un valigione, il citofono come unico preavviso, e senza molti preamboli annuncia: «Sono venuta a trovarti», e resta lì un mese.
«Buongiorno, signora» le dico.
«Buongiorno» mi dice lei un po’ sospettosa.
«Paola?» chiedo.
E lei, secca: «Non c’è».
Per nulla sorpreso dalla ruvidezza della vecchia così come dall’assenza di Paola nonostante il nostro appuntamento, scrivo a quest’ultima per chiedere lumi sull’apparente incongruenza.
Paola risponde con “Scusa sono dovuta uscire un attimo con mia mamma… arrivo subito!”.
Sospiro, poi guardo la nonna di Paola, che mi guarda a sua volta con aria interrogativa.
«Paola dice che devo aspettarla qui» dico sollevando il cellulare, non sapendo se per lei è ovvio che il mio gesto significa “Sa, Paola e io stiamo comunicando attraverso questo oggetto” e non “Signora, mi duole informarla che questo oggetto sta per abbattersi sul suo capo”.
«Entra,» mi fa lei un po’ incerta, «tra poco tornano».
La seguo fino in cucina, dove mi indica una sedia e mi fa: «Siediti», perciò mi siedo e aspetto. Valuto per un momento l’ipotesi di fare conversazione, ma non mi va, e nemmeno a lei sembra andare, quindi restiamo in silenzio. Essendo una donna del fare, comunque, la nonna di Paola comincia a estrarre dai cassetti pentolini, ciotole, mestoli e cucchiai, quindi rovista nel frigo e negli scaffali pescando ingredienti di vario genere e si mette a preparare qualche intruglio mentre io comincio a smanettare sul cellulare.
Ogni tanto mi guarda e abbozza un sorriso prima di tornare alla sua preparazione.
Quando, mezz’ora dopo, ha concluso con i fornelli, mi viene appresso quatta quatta e non appena alzo la testa per capire che cosa voglia, vedo che mi porge una specie di raviolo ricoperto di zucchero a velo.
«Lo vuoi un dolcetto?» mi fa.
Ora, se c’è una cosa che detesto è che mi si metta qualcosa da mangiare sotto il naso desiderando che la inghiotta e associando a questo eventuale inghiottimento una qualsivoglia reazione emotiva.
La ragione è che sono schizzinoso o, come si dice qui a San Paco, “smorbi”.
Per tutti i non-smorbi, uno smorbi è una persona difficile e schifiltosa con il cibo; per noi smorbi, invece, uno smorbi è solo una persona che ha dei gusti molto ben definiti, degli standard precisi e delle pretese accurate che applica a tutto ciò che si suppone debba introdurre nel proprio corpo.
Uno smorbi non mangia a prescindere, non mangia tanto per mangiare, non mangia per dare soddisfazione ad altri, non mangia se non ha fame e a volte non mangia anche se ha fame, e questo perché, soprattutto, non mangia se il cibo che dovrebbe mangiare non ha prima superato tutti i controlli di sicurezza & qualità tipici della smorbiezza. Se uno smorbi dice che gli piace l’insalata di riso, questo non significa che mangerà qualunque insalata di riso: ad esempio non la mangerà se è stata preparata da un facocero, o se è rimasta un’ora (ma facciamo venti minuti) fuori dal frigo.
Esistono poi due tipi di smorbi: lo smorbi che ha il coraggio di dire apertamente “no, grazie” (“no, fottiti”) a chi gli offre amorevolmente del cibo, e poi lo smorbi che questo coraggio non ce l’ha e dunque metterà in atto ogni possibile stratagemma per evitare di ingoiarlo, tipo infilarsi una cotoletta in tasca o fare conversazione per due ore con un pezzetto di cibo in un angolo della bocca, salvo poi, alla prima occasione, andarlo a sputare in un vaso di fiori con la nonchalance di un fenicottero. Io sono uno smorbi del secondo tipo ma, se messo alle strette, posso diventare rapidamente del primo.

La nonna di Paola non sa nulla di tutto questo. Per lei sono un essere umano con una bocca, e tanto basta.
«Lo vuoi un dolcetto?» mi ha appena chiesto piazzandomi il raviolo o quello che è sotto il naso.
Io non lo voglio, il dolcetto, e per una serie di ragioni: in quel momento non ho voglia di dolci; non so cosa c’è dentro; tendo a non mangiare cibo preparato da persone che tengono un fazzoletto nella manica del golfino.
Tuttavia, in questa particolare situazione non ho la prontezza o il coraggio di dire “no, grazie” né l’occasione di prendere il dolcetto e infilarmelo in tasca senza che la nonna di Paola mi veda e, per il dispiacere, ne muoia.
Avrebbe senso dirle che non amo quando la gente mi offre del cibo? So che è universalmente un gesto di affetto, accoglienza e balle varie, e so che lei viene da un mondo on/off dove se mangi stai bene e sei vivo, se non mangi sei morto; se accetti il cibo sei educato, se non lo accetti sei uno stronzo; se ti piace il cibo che ti è stato offerto sei buono, se non ti piace sei malvagio. Un mondo dove il cibo preparato con amore non può fare schifo.
Così prendo il dolcetto, ringrazio la nonna di Paola e lo mangio.
Il dolcetto non è male (visto?), sa di panna e limone.
«Prendine un altro» mi dice.
Ma sì, penso.
«Sì, grazie» le dico, contento che il dolcetto sia buono, contento di farla felice agendo in sincerità. Dunque ne mangio un altro.
La nonna di Paola mi osserva mangiare i dolcetti. Sembra soddisfatta.
«Un altro» mi dice poi.
A quel punto è chiaro che la vecchietta non si stancherà mai della soddisfazione che le dà vedermi mangiare i dolcetti che lei stessa ha preparato con tanto amore. Se, una volta completamente rimpinzato di dolcetti, stramazzassi al suolo privo di sensi, la nonna continuerebbe a infilarmeli in bocca a forza: “Prendi un altro dolcetto,” direbbe, “ce ne stanno ancora” direbbe, sia nel senso che ne ha degli altri, sia nel senso che dentro il mio corpo c’è, spingendo, tutto lo spazio per metterli.
Alla fine allora devo essere forte e dire: «No, grazie».
La nonna di Paola mi guarda, accigliata.
«Anzi devo scappare» aggiungo e, per rafforzare la veridicità di quella presa di posizione mi avvio alla porta ma, i casi della vita, proprio in quel momento Paola fa ritorno. Con lei c’è sua madre, che mi dice: «Eugenio! Ti fermi a pranzo?».
«Mm… ok!» dico, ormai completamente in balia di questo manipolo di gastrocentrici, e poco dopo arriva anche il padre di Paola, e poco dopo ancora siamo tutti a tavola, mangiamo, parliamo e ridiamo, tranne la nonna di Paola, che sta seduta in silenzio sbocconcellando qua e là.
Alla fine del pranzo, però, si alza con decisione, va in cucina e poi torna con la ciotola di dolcetti.
«E questi?» dice la mamma di Paola.
«Dolcetti» dice la nonna di Paola facendo spallucce.
«Ah, ti sei tenuta impegnata, brava» le dice la madre di Paola, e mangia un dolcetto.
Anche il padre di Paola mangia un dolcetto. E anche Paola. E anch’io. E poi un altro, e un altro ancora. Sono piccoli, sono freschi, sanno di panna e limone. Un po’ aciduli, forse. Per via del limone, sicuramente. Per via della panna, anche. Panna acidula, no? E tutto torna.
«Ma come li hai fatti?» chiede a un certo punto la mamma di Paola mangiando un altro dolcetto, mentre io e il padre di Paola e Paola stessa mangiamo un altro dolcetto anche noi.
«Con il limone» dice la nonna di Paola, «con la farina» dice, «con lo zucchero» dice , «con l’olio» dice, «con la fecola» dice, e «con la crema».
Qui la mamma di Paola aggrotta la fronte, la bocca piena di dolcetto mezzo masticato.
«Quale crema?» le chiede liberando uno sbuffetto di zucchero a velo.
«La crema» dice la nonna di Paola.
«Ma quale crema?» le chiede ancora la mamma di Paola, guardando poi tutti i presenti, i quali, pur continuando a masticare, mettono nel masticamento sempre meno convinzione.
«La crema, la crema…» dice la nonna di Paola, un po’ stizzita.
«Sì, ho capito, ma quale crema, mamma? Come l’hai fatta ‘sta crema?».
«Non l’ho fatta» dice allora la nonna di Paola.
Qui ci voltiamo tutti a guardarla, in silenzio. Anche il mezzobusto del Tg smette di leggere le notizie e rimette un dolcetto mezzo addentato sulla scrivania.
«Era nel frigo» dice la nonna di Paola.
«Ma quale crema nel frigo?» dice la madre di Paola. «Non c’era nessuna crema nel frigo».
Al che io comincio a sudare freddo e penso: signora nonna, per favore, dia la risposta giusta, dica “la crema nella ciotola verde”, o “nella ciotola rossa”, “la crema sul ripiano alto”, o “sul ripiano basso”, dia una risposta qualunque, anche inventata, “la crema brûlée”, “la crema cotta”, “la crema bianca”, “la crema de la crème”, qualunque cosa purché contenga la parola “crema” e purché poi la madre di Paola risponda finalmente con “Ah, la crema! E non potevi dirlo subito? La crema per i dolcetti, certo!”, e così tutto sarebbe risolto.
Ma la nonna di Paola, ora stizzita, dice solo «La crema, la crema!» e da quel momento in poi incrocia le braccia e si avvale della facoltà di non rispondere.
Nessuno mangia più i dolcetti, che comunque ormai sono finiti e giacciono meditabondi nei nostri stomaci indifesi. Immagino uno sportellino che si apre nella parte inferiore di ogni dolcetto, una scaletta di fecola che viene calata fino a terra, piccoli animaletti gelatinosi con le antenne che scendono armati di bisturi, si guardano intorno e dicono: «Bene, cominciamo».
«Va be’, faccio il caffè» dice allora la mamma di Paola, alzandosi.
Dopo il caffè facciamo due chiacchiere e il tempo scorre gradevolmente, la nonna sembra assopita e dopo un po’ il padre di Paola si assenta, quindi torna. Poco dopo anche la mamma di Paola si assenta e poi torna. Allora si assenta Paola, che poi torna ma a quel punto mi assento io, e io non lo so che cosa si sono assentati a fare, gli altri, ma io mi sono assentato per un motivo molto preciso: guadagnare celermente il cosiddetto vaso di maiolica, dove poi mi siedo e assisto con un qual certo sbigottimento a quella che sembra la totale liquefazione di ciò che un tempo stava più o meno solidamente al mio interno, quindi torno di là e trovo tutti seduti da qualche parte, ma con certe facce… e tutti che si massaggiano debolmente la pancia e si lamentano producendo il suono sommesso ma nervoso di un gatto in attesa di essere palpato dal veterinario, e anch’io subito dopo comincio a lamentarmi, a tenermi un po’ la pancia con le mani per via di certi dolorini, che poi diventano dolori, e anche gli altri probabilmente dai dolorini passano ai dolori, e allora ci pieghiamo tutti su noi stessi, poi ci inginocchiamo, poi ci adagiamo sul pavimento dicendo «Ohi ohi…», tutti tranne la vecchina, la nonna di Paola, che se ne sta in piedi tranquilla, minuta com’è, bella massiccia, lei, una roccia, sana, fresca, rosa e paffuta, centoquattro anni e non sentirli, lì che ci osserva silenziosa.
«Signora…» le dico afferrandole una caviglia, «ma… ma perché lei… perché lei non sta male? Non ha mangiato i… i dolcetti?».
«I dolcetti? Nooo…» dice lei liberandosi dalla presa e andando in cucina. Poi, tornando con un’altra ciotola, aggiunge: «Io sono tanto difficile con il mangiare, sai? Da cinquant’anni mangio solo riso in bianco e uova sode, e la sera un frutto».
Detto questo, si china e mi piazza un dolcetto sotto il naso.
«Tieni, mangia» mi dice.
«Veramente non mi sento al massimo» le dico.
«Così mi fai restare male» dice lei, delusa. «Vuoi far piangere la nonna?».
«Ma lei… lei non è mia nonna» dico con un fil di voce.
«Fai contenta la nonna» dice lei cercando di infilarmi in bocca il dolcetto, «li ho fatti per te».
«E va bene,» farfuglio, «tanto ormai…», e lascio che la nonna di Paola mi infili in bocca il dolcetto. Poi mi sorride e, dopo aver preso un altro dolcetto dalla ciotola, me lo spreme in bocca e dice: «Bravo, mi dai soddisfazione».

7.11.25

Dio ti benedica (1459)

Ieri stavo camminando per la via principale di San Paco, quando vengo fermato dal solito mendicante, dico "solito" perché San Paco Llorente è piccola, tanto che se esco a piedi e vado a prendere la pizza alla pizzeria al trancio Brad Pizz, il giorno dopo la signora Gardini se mi incontra mi dice «Ieri ti sei andato a prendere la pizza, eh? L'hai presa quattro stagioni? Il mio binocolo è vecchio e non sono riuscita a capire». Il solito mendicante ha un suo modus operandi: ti ferma e ti mostra un biglietto su cui sta scritto, mi dicono (io vedo solo scritte confuse), che sua moglie ha appena partorito e dunque gli servono i soldi per dare da mangiare al bambino. Per inciso, sua moglie ha appena partorito ogni giorno da vent'anni. Gli ho sempre detto sbrigativamente «Non ho soldi» ma ieri avevo due monete da un euro in tasca, c'era una bella giornata primaverile e avevo appena fatto merenda, dunque senza leggere il biglietto gliene ho messa una nel palmo della mano pensando che mi avrebbe detto «Grazie, Dio ti benedica» e ciao. Invece quando faccio per andarmene lui mi pinza per la manica del giacchetto e quando, sconcertato, mi volto a guardarlo, lui mi mostra il biglietto come a dire: "Ma hai letto?". Guardo il biglietto strizzando gli occhi come se stessi cercando di leggere bene ma in realtà cercando di smaterializzarmi rimaterializzarmi altrove, anche solo alle sue spalle, così da poter fuggire, ma niente. Il punto è chiaro: vuole altri soldi. Allora gli do anche la seconda moneta, un po' seccato devo dire, e faccio per andarmene ma lui mi ferma, insiste con il biglietto: vuole altri soldi. «Ma quanti soldi vuoi?» gli dico, e lui: «Trecentoventicinque euro». E io: «Ma tutti da me?!». E lui: «Ti prego, mio figlio è appena nato, ha molta fame e mangia solo caviale innaffiato da Philipponnat Clos des Goisses del 2018». «E che cazzo» dico. Poi prendo il portafoglio ma ho solo cento euro. «Ho solo cento» gli dico, lui li prende senza indugio e quando faccio per andarmene mi ferma ancora e mi dice: «Mancano duecentoventitré euro, amico». Sbuffo. «Accetti carte?» gli chiedo. «Certo,» dice lui sfilando un POS dalla tasca interna del cappotto double face in lana, cachemire e seta di Luis Vuitton. Avvicino la carta, pagamento contactless, bip! «Dio ti benedica» mi dice mentre mi porge lo scontrino. «Ci vediamo domani» mi dice. «Come domani?» gli dico io. «Domani, stessa ora,» mi dice lui, «vedi di portare i soldi, il mio bambino mangia tutti i giorni».

4.11.25