Una mattina suono il citofono di casa della mia amica Paola.
Quando si apre la porta, però, sulla soglia non si presenta Paola, bensì una versione miniaturizzata di Gary Oldman in Dracula: la nonna di Paola.
La cosa mi sorprende relativamente perché so che la vecchiarella, quando le gira, si presenta con un valigione, il citofono come unico preavviso, e senza molti preamboli annuncia: «Sono venuta a trovarti», e resta lì un mese.
«Buongiorno, signora» le dico.
«Buongiorno» mi dice lei un po’ sospettosa.
«Paola?» chiedo.
E lei, secca: «Non c’è».
Per nulla sorpreso dalla ruvidezza della vecchia così come dall’assenza di Paola nonostante il nostro appuntamento, scrivo a quest’ultima per chiedere lumi sull’apparente incongruenza.
Paola risponde con “Scusa sono dovuta uscire un attimo con mia mamma… arrivo subito!”.
Sospiro, poi guardo la nonna di Paola, che mi guarda a sua volta con aria interrogativa.
«Paola dice che devo aspettarla qui» dico sollevando il cellulare, non sapendo se per lei è ovvio che il mio gesto significa “Sa, Paola e io stiamo comunicando attraverso questo oggetto” e non “Signora, mi duole informarla che questo oggetto sta per abbattersi sul suo capo”.
«Entra,» mi fa lei un po’ incerta, «tra poco tornano».
La seguo fino in cucina, dove mi indica una sedia e mi fa: «Siediti», perciò mi siedo e aspetto. Valuto per un momento l’ipotesi di fare conversazione, ma non mi va, e nemmeno a lei sembra andare, quindi restiamo in silenzio. Essendo una donna del fare, comunque, la nonna di Paola comincia a estrarre dai cassetti pentolini, ciotole, mestoli e cucchiai, quindi rovista nel frigo e negli scaffali pescando ingredienti di vario genere e si mette a preparare qualche intruglio mentre io comincio a smanettare sul cellulare.
Ogni tanto mi guarda e abbozza un sorriso prima di tornare alla sua preparazione.
Quando, mezz’ora dopo, ha concluso con i fornelli, mi viene appresso quatta quatta e non appena alzo la testa per capire che cosa voglia, vedo che mi porge una specie di raviolo ricoperto di zucchero a velo.
«Lo vuoi un dolcetto?» mi fa.
Ora, se c’è una cosa che detesto è che mi si metta qualcosa da mangiare sotto il naso desiderando che la inghiotta e associando a questo eventuale inghiottimento una qualsivoglia reazione emotiva.
La ragione è che sono schizzinoso o, come si dice qui a San Paco, “smorbi”.
Per tutti i non-smorbi, uno smorbi è una persona difficile e schifiltosa con il cibo; per noi smorbi, invece, uno smorbi è solo una persona che ha dei gusti molto ben definiti, degli standard precisi e delle pretese accurate che applica a tutto ciò che si suppone debba introdurre nel proprio corpo.
Uno smorbi non mangia a prescindere, non mangia tanto per mangiare, non mangia per dare soddisfazione ad altri, non mangia se non ha fame e a volte non mangia anche se ha fame, e questo perché, soprattutto, non mangia se il cibo che dovrebbe mangiare non ha prima superato tutti i controlli di sicurezza & qualità tipici della smorbiezza. Se uno smorbi dice che gli piace l’insalata di riso, questo non significa che mangerà qualunque insalata di riso: ad esempio non la mangerà se è stata preparata da un facocero, o se è rimasta un’ora (ma facciamo venti minuti) fuori dal frigo.
Esistono poi due tipi di smorbi: lo smorbi che ha il coraggio di dire apertamente “no, grazie” (“no, fottiti”) a chi gli offre amorevolmente del cibo, e poi lo smorbi che questo coraggio non ce l’ha e dunque metterà in atto ogni possibile stratagemma per evitare di ingoiarlo, tipo infilarsi una cotoletta in tasca o fare conversazione per due ore con un pezzetto di cibo in un angolo della bocca, salvo poi, alla prima occasione, andarlo a sputare in un vaso di fiori con la nonchalance di un fenicottero.
Io sono uno smorbi del secondo tipo ma, se messo alle strette, posso diventare rapidamente del primo.
La nonna di Paola non sa nulla di tutto questo. Per lei sono un essere umano con una bocca, e tanto basta.
«Lo vuoi un dolcetto?» mi ha appena chiesto piazzandomi il raviolo o quello che è sotto il naso.
Io non lo voglio, il dolcetto, e per una serie di ragioni: in quel momento non ho voglia di dolci; non so cosa c’è dentro; tendo a non mangiare cibo preparato da persone che tengono un fazzoletto nella manica del golfino.
Tuttavia, in questa particolare situazione non ho la prontezza o il coraggio di dire “no, grazie” né l’occasione di prendere il dolcetto e infilarmelo in tasca senza che la nonna di Paola mi veda e, per il dispiacere, ne muoia.
Avrebbe senso dirle che non amo quando la gente mi offre del cibo? So che è universalmente un gesto di affetto, accoglienza e balle varie, e so che lei viene da un mondo on/off dove se mangi stai bene e sei vivo, se non mangi sei morto; se accetti il cibo sei educato, se non lo accetti sei uno stronzo; se ti piace il cibo che ti è stato offerto sei buono, se non ti piace sei malvagio. Un mondo dove il cibo preparato con amore non può fare schifo.
Così prendo il dolcetto, ringrazio la nonna di Paola e lo mangio.
Il dolcetto non è male (visto?), sa di panna e limone.
«Prendine un altro» mi dice.
Ma sì, penso.
«Sì, grazie» le dico, contento che il dolcetto sia buono, contento di farla felice agendo in sincerità. Dunque ne mangio un altro.
La nonna di Paola mi osserva mangiare i dolcetti. Sembra soddisfatta.
«Un altro» mi dice poi.
A quel punto è chiaro che la vecchietta non si stancherà mai della soddisfazione che le dà vedermi mangiare i dolcetti che lei stessa ha preparato con tanto amore. Se, una volta completamente rimpinzato di dolcetti, stramazzassi al suolo privo di sensi, la nonna continuerebbe a infilarmeli in bocca a forza: “Prendi un altro dolcetto,” direbbe, “ce ne stanno ancora” direbbe, sia nel senso che ne ha degli altri, sia nel senso che dentro il mio corpo c’è, spingendo, tutto lo spazio per metterli.
Alla fine allora devo essere forte e dire: «No, grazie».
La nonna di Paola mi guarda, accigliata.
«Anzi devo scappare» aggiungo e, per rafforzare la veridicità di quella presa di posizione mi avvio alla porta ma, i casi della vita, proprio in quel momento Paola fa ritorno. Con lei c’è sua madre, che mi dice: «Eugenio! Ti fermi a pranzo?».
«Mm… ok!» dico, ormai completamente in balia di questo manipolo di gastrocentrici, e poco dopo arriva anche il padre di Paola, e poco dopo ancora siamo tutti a tavola, mangiamo, parliamo e ridiamo, tranne la nonna di Paola, che sta seduta in silenzio sbocconcellando qua e là.
Alla fine del pranzo, però, si alza con decisione, va in cucina e poi torna con la ciotola di dolcetti.
«E questi?» dice la mamma di Paola.
«Dolcetti» dice la nonna di Paola facendo spallucce.
«Ah, ti sei tenuta impegnata, brava» le dice la madre di Paola, e mangia un dolcetto.
Anche il padre di Paola mangia un dolcetto. E anche Paola. E anch’io. E poi un altro, e un altro ancora. Sono piccoli, sono freschi, sanno di panna e limone. Un po’ aciduli, forse. Per via del limone, sicuramente. Per via della panna, anche. Panna acidula, no? E tutto torna.
«Ma come li hai fatti?» chiede a un certo punto la mamma di Paola mangiando un altro dolcetto, mentre io e il padre di Paola e Paola stessa mangiamo un altro dolcetto anche noi.
«Con il limone» dice la nonna di Paola, «con la farina» dice, «con lo zucchero» dice , «con l’olio» dice, «con la fecola» dice, e «con la crema».
Qui la mamma di Paola aggrotta la fronte, la bocca piena di dolcetto mezzo masticato.
«Quale crema?» le chiede liberando uno sbuffetto di zucchero a velo.
«La crema» dice la nonna di Paola.
«Ma quale crema?» le chiede ancora la mamma di Paola, guardando poi tutti i presenti, i quali, pur continuando a masticare, mettono nel masticamento sempre meno convinzione.
«La crema, la crema…» dice la nonna di Paola, un po’ stizzita.
«Sì, ho capito, ma quale crema, mamma? Come l’hai fatta ‘sta crema?».
«Non l’ho fatta» dice allora la nonna di Paola.
Qui ci voltiamo tutti a guardarla, in silenzio. Anche il mezzobusto del Tg smette di leggere le notizie e rimette un dolcetto mezzo addentato sulla scrivania.
«Era nel frigo» dice la nonna di Paola.
«Ma quale crema nel frigo?» dice la madre di Paola. «Non c’era nessuna crema nel frigo».
Al che io comincio a sudare freddo e penso: signora nonna, per favore, dia la risposta giusta, dica “la crema nella ciotola verde”, o “nella ciotola rossa”, “la crema sul ripiano alto”, o “sul ripiano basso”, dia una risposta qualunque, anche inventata, “la crema brûlée”, “la crema cotta”, “la crema bianca”, “la crema de la crème”, qualunque cosa purché contenga la parola “crema” e purché poi la madre di Paola risponda finalmente con “Ah, la crema! E non potevi dirlo subito? La crema per i dolcetti, certo!”, e così tutto sarebbe risolto.
Ma la nonna di Paola, ora stizzita, dice solo «La crema, la crema!» e da quel momento in poi incrocia le braccia e si avvale della facoltà di non rispondere.
Nessuno mangia più i dolcetti, che comunque ormai sono finiti e giacciono meditabondi nei nostri stomaci indifesi. Immagino uno sportellino che si apre nella parte inferiore di ogni dolcetto, una scaletta di fecola che viene calata fino a terra, piccoli animaletti gelatinosi con le antenne che scendono armati di bisturi, si guardano intorno e dicono: «Bene, cominciamo».
«Va be’, faccio il caffè» dice allora la mamma di Paola, alzandosi.
Dopo il caffè facciamo due chiacchiere e il tempo scorre gradevolmente, la nonna sembra assopita e dopo un po’ il padre di Paola si assenta, quindi torna. Poco dopo anche la mamma di Paola si assenta e poi torna. Allora si assenta Paola, che poi torna ma a quel punto mi assento io, e io non lo so che cosa si sono assentati a fare, gli altri, ma io mi sono assentato per un motivo molto preciso: guadagnare celermente il cosiddetto vaso di maiolica, dove poi mi siedo e assisto con un qual certo sbigottimento a quella che sembra la totale liquefazione di ciò che un tempo stava più o meno solidamente al mio interno, quindi torno di là e trovo tutti seduti da qualche parte, ma con certe facce… e tutti che si massaggiano debolmente la pancia e si lamentano producendo il suono sommesso ma nervoso di un gatto in attesa di essere palpato dal veterinario, e anch’io subito dopo comincio a lamentarmi, a tenermi un po’ la pancia con le mani per via di certi dolorini, che poi diventano dolori, e anche gli altri probabilmente dai dolorini passano ai dolori, e allora ci pieghiamo tutti su noi stessi, poi ci inginocchiamo, poi ci adagiamo sul pavimento dicendo «Ohi ohi…», tutti tranne la vecchina, la nonna di Paola, che se ne sta in piedi tranquilla, minuta com’è, bella massiccia, lei, una roccia, sana, fresca, rosa e paffuta, centoquattro anni e non sentirli, lì che ci osserva silenziosa.
«Signora…» le dico afferrandole una caviglia, «ma… ma perché lei… perché lei non sta male? Non ha mangiato i… i dolcetti?».
«I dolcetti? Nooo…» dice lei liberandosi dalla presa e andando in cucina. Poi, tornando con un’altra ciotola, aggiunge: «Io sono tanto difficile con il mangiare, sai? Da cinquant’anni mangio solo riso in bianco e uova sode, e la sera un frutto».
Detto questo, si china e mi piazza un dolcetto sotto il naso.
«Tieni, mangia» mi dice.
«Veramente non mi sento al massimo» le dico.
«Così mi fai restare male» dice lei, delusa. «Vuoi far piangere la nonna?».
«Ma lei… lei non è mia nonna» dico con un fil di voce.
«Fai contenta la nonna» dice lei cercando di infilarmi in bocca il dolcetto, «li ho fatti per te».
«E va bene,» farfuglio, «tanto ormai…», e lascio che la nonna di Paola mi infili in bocca il dolcetto. Poi mi sorride e, dopo aver preso un altro dolcetto dalla ciotola, me lo spreme in bocca e dice: «Bravo, mi dai soddisfazione».
7.11.25
Dio ti benedica (1459)
Ieri stavo camminando per la via principale di San Paco, quando vengo fermato dal solito mendicante, dico "solito" perché San Paco Llorente è piccola, tanto che se esco a piedi e vado a prendere la pizza alla pizzeria al trancio Brad Pizz, il giorno dopo la signora Gardini se mi incontra mi dice «Ieri ti sei andato a prendere la pizza, eh? L'hai presa quattro stagioni? Il mio binocolo è vecchio e non sono riuscita a capire». Il solito mendicante ha un suo modus operandi: ti ferma e ti mostra un biglietto su cui sta scritto, mi dicono (io vedo solo scritte confuse), che sua moglie ha appena partorito e dunque gli servono i soldi per dare da mangiare al bambino. Per inciso, sua moglie ha appena partorito ogni giorno da vent'anni. Gli ho sempre detto sbrigativamente «Non ho soldi» ma ieri avevo due monete da un euro in tasca, c'era una bella giornata primaverile e avevo appena fatto merenda, dunque senza leggere il biglietto gliene ho messa una nel palmo della mano pensando che mi avrebbe detto «Grazie, Dio ti benedica» e ciao. Invece quando faccio per andarmene lui mi pinza per la manica del giacchetto e quando, sconcertato, mi volto a guardarlo, lui mi mostra il biglietto come a dire: "Ma hai letto?". Guardo il biglietto strizzando gli occhi come se stessi cercando di leggere bene ma in realtà cercando di smaterializzarmi rimaterializzarmi altrove, anche solo alle sue spalle, così da poter fuggire, ma niente. Il punto è chiaro: vuole altri soldi. Allora gli do anche la seconda moneta, un po' seccato devo dire, e faccio per andarmene ma lui mi ferma, insiste con il biglietto: vuole altri soldi. «Ma quanti soldi vuoi?» gli dico, e lui: «Trecentoventicinque euro». E io: «Ma tutti da me?!». E lui: «Ti prego, mio figlio è appena nato, ha molta fame e mangia solo caviale innaffiato da Philipponnat Clos des Goisses del 2018». «E che cazzo» dico. Poi prendo il portafoglio ma ho solo cento euro. «Ho solo cento» gli dico, lui li prende senza indugio e quando faccio per andarmene mi ferma ancora e mi dice: «Mancano duecentoventitré euro, amico». Sbuffo. «Accetti carte?» gli chiedo. «Certo,» dice lui sfilando un POS dalla tasca interna del cappotto double face in lana, cachemire e seta di Luis Vuitton. Avvicino la carta, pagamento contactless, bip! «Dio ti benedica» mi dice mentre mi porge lo scontrino. «Ci vediamo domani» mi dice. «Come domani?» gli dico io. «Domani, stessa ora,» mi dice lui, «vedi di portare i soldi, il mio bambino mangia tutti i giorni».
4.11.25
Il battello (1458)
La settimana scorsa l’anziana madre va a una gita e si busca un raffreddore. Pochi giorni dopo c'è in programma un'altra gita e lei decide di andare lo stesso. Non dico niente. L'anziana madre torna dalla seconda gita che il raffreddore è diventato una bronchite. Non dico niente. Non dico niente anche perché ho già detto tutto troppe volte e ho imparato a non rimproverare gli anziani genitori così come non rimprovero mai la gatta: li accetto nella loro immutabile purezza. Non sollecitata, tossendo, l’anziana madre mi fa: «So che ho sbagliado». La considero una provocazione di bassa lega e dico: «Non dico niente». Per tutta risposta lei annuncia che di lì a due giorni parteciperà insieme all’anziano padre, anch’egli peraltro ammalato, a una terza gita. Ma io continuo a non dire niente. Al ritorno, mi chiama e con voce fortemente nasale mi fa: «Avevi ragione». Anche se non avevo detto niente, ma ormai riesco ad avere ragione senza nemmeno parlare. «Il baddello non ha aiudado» aggiunge. Il battello, penso, ma certo. Allora una cosa la dico. Dico: «Occhio che se ti becchi una polmonite hai centosettant'anni e quindi…». L'anziana madre, dice: «Ba no, sono forde». Io dico: «Lo scriverò sulla tua lapide». L'anziana madre ride, tossisce, riattacca e poi va a prenotare altri battelli, altre gite.
17.10.25
Il colpevole (1457)
Quando c’è un controllo ho sempre paura di essere scoperto, anche se non ho fatto niente. Succede nei negozi, dove per una frazione di secondo trattengo il fiato mentre passo attraverso il sistema antitaccheggio e mi stupisco sempre un po’ se non comincia a suonare, anche quando entro; succede al mio supermercato preferito, dove effettivamente a volte l’allarme parte un po’ a caso e le cassiere, che mi conoscono, mi fanno cenno di andare, e io allora mentre riprendo a spingere la carriola stracolma di sacchi di zafferano, smartphone e zanne di elefante sorrido e dico «Ah, questa tecnologia…»; ma succede soprattutto quando c’è un posto di blocco stradale o al controllo sicurezza negli aeroporti. E, riguardo a questi ultimi due casi, la settimana scorsa penso di aver fatto il pieno.
Ero infatti a Londra, dove vado spesso a comprare il radicchio anche se l’esperienza è a tratti snervante sia per il volo (come dice Barry Sonnenfeld, considero ogni aereo atterrato con successo “un tentativo di suicidio fallito”) sia per i controlli di sicurezza.
La mia paura è che nei miei bagagli trovino qualcosa che non va, che so, un’arma, un ordigno o della droga, anche se non ne faccio uso né la commercio. Il mio unico contatto con delle sostanze stupefacenti è stato a dodici anni, quando ho provato uno spinello.
Ero sul divano con mia nonna Rachele a guardare Colombo e lei ha insistito tanto:
«Mica male questa merda, no?» mi ha detto soffiando una nuvola di fumo e passandomi la canna.
Con la nonna guardavamo sempre anche una trasmissione dove venivano filmati i controlli aeroportuali, facendo a gara a indovinare chi tra i passeggeri appena sbarcati avesse nella pancia gli ovuli con la droga.
«Quello non me la racconta giusta» diceva la nonna, che a indovinare era bravissima. Ma io non ero portato, per me era agghiacciante anche solo l’idea di ingoiare uno di quei cosi, visto che ancora oggi devo farmi waterboarding per mandar giù una compressa grande più di una lenticchia. Tra l’altro l’ipotesi che un ovetto possa rompersi e uccidermi mi spaventerebbe molto più della galera, quindi appena sceso dall’aereo correrei incontro ai poliziotti urlando “Toglietemi gli ovuli!” (Probabilmente non capirebbero e, nel dubbio, mi crivellerebbero di colpi).
Quest’ansia costante è uno dei vari motivi per cui non sono un buon compagno di viaggio, e una qualunque delle mie ex sedicenti fidanzate potrebbe confermare.
Una volta ero all’aeroporto, sempre di Londra – ce n’è solo uno, mi pare –, con la mia fidanzata del tempo, Lucilla. In fila per i controlli, Lucilla fischiettava beata, proprio come una che è in vacanza, io invece ero come al solito molto teso e sudavo come un infiltrato nella malavita in costume da bagno sotto il sole cocente con un microfono dell’FBI appiccicato al petto mentre parla con Tommy Strippapelle.
Quando io e Lucilla siamo stati scagionati, cioè voglio dire quando ci hanno rilasciato, passandomi il dorso della mano sulla fronte ho detto: «Fiuuu! Meno male, Lucy, mi ero già visto dentro!». E lei, aggrottando la fronte: «Ma mi spieghi perché tutte le volte sei così agitato? Se sei un trafficante di droga vorrei saperlo…».
Il peggio però è stato, appunto, la settimana scorsa.
Ai controlli, la mia valigia è finita sul nastro interno, non su quello dove in genere la si prende per poi rimettersi comodamente le mutande in mezzo alla folla prima di andarsene al gate.
Mentre tutti recuperano il proprio bagaglio, io vedo la mia valigia che trotterella sul nastro sbagliato e penso: “Che sfortuna, la mia valigia ha imboccato non si sa come l’altra corsia”.
Dunque mi avvicino con cautela e massimo rispetto a un poliziotto che tra l’altro mi pare identico al cattivo de L’esercito delle dodici scimmie e gli faccio (in inglese): «Mi scusi, la mia valigia è finita – faccio un gesto con la mano come a simulare un piccolo tuffetto accidentale – sull’altro lato del…» e qui mi manca la parola, quindi opto per un generico: «Del coso».
Il poliziotto mi guarda, guarda la mia valigia e poi, con placida supponenza tipicamente anglosassone dice: «Allora verrà perquisita».
“Gesù,” penso, “ci siamo!” e mentre su un maxischermo vedo nonna Rachele che mi dice “è arrivato il momento, Eugenio, ricorda tutto quello che ti ho insegnato”, cerco di sembrare calmo per non destare ulteriori sospetti, anche se i poliziotti aeroportuali sanno capire quando uno è calmo e quando uno invece sta solo cercando di esserlo.
Ero infatti a Londra, dove vado spesso a comprare il radicchio anche se l’esperienza è a tratti snervante sia per il volo (come dice Barry Sonnenfeld, considero ogni aereo atterrato con successo “un tentativo di suicidio fallito”) sia per i controlli di sicurezza.
La mia paura è che nei miei bagagli trovino qualcosa che non va, che so, un’arma, un ordigno o della droga, anche se non ne faccio uso né la commercio. Il mio unico contatto con delle sostanze stupefacenti è stato a dodici anni, quando ho provato uno spinello.
Ero sul divano con mia nonna Rachele a guardare Colombo e lei ha insistito tanto:
«Mica male questa merda, no?» mi ha detto soffiando una nuvola di fumo e passandomi la canna.
Con la nonna guardavamo sempre anche una trasmissione dove venivano filmati i controlli aeroportuali, facendo a gara a indovinare chi tra i passeggeri appena sbarcati avesse nella pancia gli ovuli con la droga.
«Quello non me la racconta giusta» diceva la nonna, che a indovinare era bravissima. Ma io non ero portato, per me era agghiacciante anche solo l’idea di ingoiare uno di quei cosi, visto che ancora oggi devo farmi waterboarding per mandar giù una compressa grande più di una lenticchia. Tra l’altro l’ipotesi che un ovetto possa rompersi e uccidermi mi spaventerebbe molto più della galera, quindi appena sceso dall’aereo correrei incontro ai poliziotti urlando “Toglietemi gli ovuli!” (Probabilmente non capirebbero e, nel dubbio, mi crivellerebbero di colpi).
Quest’ansia costante è uno dei vari motivi per cui non sono un buon compagno di viaggio, e una qualunque delle mie ex sedicenti fidanzate potrebbe confermare.
Una volta ero all’aeroporto, sempre di Londra – ce n’è solo uno, mi pare –, con la mia fidanzata del tempo, Lucilla. In fila per i controlli, Lucilla fischiettava beata, proprio come una che è in vacanza, io invece ero come al solito molto teso e sudavo come un infiltrato nella malavita in costume da bagno sotto il sole cocente con un microfono dell’FBI appiccicato al petto mentre parla con Tommy Strippapelle.
Quando io e Lucilla siamo stati scagionati, cioè voglio dire quando ci hanno rilasciato, passandomi il dorso della mano sulla fronte ho detto: «Fiuuu! Meno male, Lucy, mi ero già visto dentro!». E lei, aggrottando la fronte: «Ma mi spieghi perché tutte le volte sei così agitato? Se sei un trafficante di droga vorrei saperlo…».
Il peggio però è stato, appunto, la settimana scorsa.
Ai controlli, la mia valigia è finita sul nastro interno, non su quello dove in genere la si prende per poi rimettersi comodamente le mutande in mezzo alla folla prima di andarsene al gate.
Mentre tutti recuperano il proprio bagaglio, io vedo la mia valigia che trotterella sul nastro sbagliato e penso: “Che sfortuna, la mia valigia ha imboccato non si sa come l’altra corsia”.
Dunque mi avvicino con cautela e massimo rispetto a un poliziotto che tra l’altro mi pare identico al cattivo de L’esercito delle dodici scimmie e gli faccio (in inglese): «Mi scusi, la mia valigia è finita – faccio un gesto con la mano come a simulare un piccolo tuffetto accidentale – sull’altro lato del…» e qui mi manca la parola, quindi opto per un generico: «Del coso».
Il poliziotto mi guarda, guarda la mia valigia e poi, con placida supponenza tipicamente anglosassone dice: «Allora verrà perquisita».
“Gesù,” penso, “ci siamo!” e mentre su un maxischermo vedo nonna Rachele che mi dice “è arrivato il momento, Eugenio, ricorda tutto quello che ti ho insegnato”, cerco di sembrare calmo per non destare ulteriori sospetti, anche se i poliziotti aeroportuali sanno capire quando uno è calmo e quando uno invece sta solo cercando di esserlo.
(Il poliziotto inglese mentre fa il test antidroga ai miei effetti personali, già pregustandone la positività.)
Mentre il poliziotto passa l’affarino per rintracciare eventuali residui di droga sui miei vestiti e persino sulle mie siringhe e sul mio bilancino, ho il culo strettissimo.
«Così stretto che non ci passerebbe nemmeno un ovulo di droga» dico all’altro agente accanto a me, pronto con le manette.
”Ma tu non usi droghe e neanche le trasporti!” cerco di ricordare a me stesso per tranquillizzarmi. Però, mentre lui passa l’affarino sui miei effetti personali, penso: “Ma metti il caso, Eugenio, metti il caso… – noi ansiosi mettiamo sempre uno o più casi – che so, magari la donna delle pulizie dell’albergo, dopo aver pulito la stanza, ha aperto la tua valigia e si è messa a farsi delle strisce di coca sui tuoi pullover. Oppure ha nascosto un pacchettino di droga dentro la tasca di un paio dei tuoi jeans”.
”Ma perché l’avrebbe fatto?!” mi chiedo poi, ma so che in realtà tutto è possibile, specie per un ansioso presunto colpevole con una fervida immaginazione catastrofistica quale io innegabilmente sono.
Alla fine il controllo dà sorprendentemente esito negativo. Mi rilasso per alcuni secondi, prima di agitarmi di nuovo per il volo.
Come si può intuire, però, l’aereo riesce ad atterrare e in men che non si dica sono in autostrada, pronto per arrivare a casa e rilassarmi con il mio infuso al radicchio, quando all’altezza di Casalpusterlengo una pattuglia della polizia mi si mette alle costole con i lampeggianti accesi.
Mi sposto a destra per farla passare, ma si sposta anche lei. Mi sposto ancora più a destra e rallento, e la pattuglia uguale. Alla fine con alcuni colpi di pistola nel lunotto posteriore mi fanno segno di accostare.
Se non altro, penso, la valigia è appena stata controllata, ma prima che possa tirare un sospiro di sollievo mi viene in mente che la macchina è rimasta alcune notti in aeroporto, incustodita sulla pista 6, e io non ho nemmeno aperto il bagagliaio prima di partire, dunque potrebbe esserci di tutto (immagino la donna delle pulizie inglese che nottetempo infila un cadavere nel baule, poi riprende l’aereo e torna a Londra).
Il poliziotto si avvicina, mi fa segno di abbassare il finestrino, io eseguo, lui mi fa segno di abbassare il mio finestrino, non quello del passeggero, io eseguo, poi lui mi scruta un attimo e mi fa: «Vada pure».
Tiro un sospiro di sollievo e riparto. Evidentemente stavano cercando qualche malvivente e io corrispondevo per alcuni dettagli alla descrizione: modello, colore e numero di cacche di uccello dell’automobile, occhiali da vista, bellezza accecante. Dopo un esame ravvicinato, però, il poliziotto si è reso conto che non ero il loro uomo.
Poco dopo essere uscito dall’autostrada, quando ormai sono arrivato, mi ferma una seconda pattuglia, a conferma che non è proprio la mia giornata.
La scena dunque si ripete, un nuovo poliziotto si avvicina ma questa volta dopo avermi esaminato si volta verso il collega e dice: «Ehi, Nicola, mi porti quella segnaletica?» e poi, guardando me: «Per favore, signore, scenda dal veicolo e appoggi le mani al cofano».
Vorrei dire: “Mi scusi, deve esserci un errore” ma è quello che dicono tutti i colpevoli, praticamente è la prova del nove.
«Cercate qualcuno?» chiedo invece senza scendere, anzi mettendo la sicura.
«Sì, Guglielmo Favoretti, il famoso criminale partenopeo, detto O’ Perticone. A proposito, lei quanto è alto?» mi chiede l’agente.
«Prima di rispondere, posso sapere quanto è alto O’ Perticone?» chiedo.
«1.89» mi fa lui.
«1.89, eh?» dico io ingobbendomi. «Ma comunque ecco i miei documenti, guardi lì: mi chiamo in modo completamente diverso».
«Documenti falsi,» dice l’agente, «che ci vuole?». E poi, scorrendo le varie voci: «Però cosa vedo qui? Altezza 1.89».
«Ma mi scusi, agente, ragioni…».
«Sta dicendo che non ragiono?».
«No! Sto solo dicendo: secondo lei se faccio un documento falso metto proprio la stessa altezza di O’ Perticone, ovvero la mia reale altezza?».
«Allora ammette di essere O’ Perticone!».
«Solo nell’esempio!».
«Comunque l’altezza non si può mica contraffare».
«Ma almeno avrei messo 1.90 o 1.88!».
«O’ Perticone è molto furbo,» dice l’agente, «questa è psicologia di secondo o terzo livello, ma noi siamo preparati a individuarla fino al quinto. Ti è andata male, Perticone!”» dice l’agente tirandomi giù a forza dall’automobile e mettendomi le manette. E io, disperato mentre mi trascina via grido: «Maronna mia! Mannaggia o’ suricillo e ‘a pezza ’nfosa!», anche se sono emiliano.
Alla fine, per mia fortuna, interviene l’agente Nicola.
«Ma non lo vedi che questo è solo un povero fesso?» dice al collega.
«Esatto!» dico io.
L’altro agente mi guarda bene, poi si lascia convincere e mi leva le manette.
«Grazie, grazie» dico profondendomi ossequiosamente in inchini mentre indietreggio verso la mia automobile. Per sdebitarmi offro loro un sacco di zafferano e tre zanne di elefante.
Una volta a casa, chiamo Peppe detto ‘a bomba.
«Uè, Pè, so’ arrivato…».
«Ue’ Pertico’, l’hai scanzata!».
«Maro’! Tengo ‘o core arravugliato comme a nu fegatiello…».
«Hai purtato ‘a robba?».
«E certo! So’ venuto pe’ chesto…».
«Si’ nu bravo guaglione, Pertico’».
«Così stretto che non ci passerebbe nemmeno un ovulo di droga» dico all’altro agente accanto a me, pronto con le manette.
”Ma tu non usi droghe e neanche le trasporti!” cerco di ricordare a me stesso per tranquillizzarmi. Però, mentre lui passa l’affarino sui miei effetti personali, penso: “Ma metti il caso, Eugenio, metti il caso… – noi ansiosi mettiamo sempre uno o più casi – che so, magari la donna delle pulizie dell’albergo, dopo aver pulito la stanza, ha aperto la tua valigia e si è messa a farsi delle strisce di coca sui tuoi pullover. Oppure ha nascosto un pacchettino di droga dentro la tasca di un paio dei tuoi jeans”.
”Ma perché l’avrebbe fatto?!” mi chiedo poi, ma so che in realtà tutto è possibile, specie per un ansioso presunto colpevole con una fervida immaginazione catastrofistica quale io innegabilmente sono.
Se non c’è droga, potrebbero comunque trovare un coltello insanguinato, penso.
“E questo, signore?” direbbe il poliziotto tenendo il coltello con la punta delle dita.
E io: “Mai visto prima!”.
“E questo signore?” direbbe l’altro poliziotto tenendo un signore con la punta delle dita.
E io: “Mai visto prima!”.
“Dicono tutti così,” direbbe il poliziotto sorseggiando una tazza di tè inglese, “e sono pronto a scommettere che il coltello combacia con la ferita in quell’addome, in quel corpo, là nel bagno del nostro rispettabilissimo aeroporto. E scommetto pure che anche il sangue combacia. Ha mai visto Fuga di mezzanotte? E Papillon? Lei è in un bel guaio, glielo dico io”.Alla fine il controllo dà sorprendentemente esito negativo. Mi rilasso per alcuni secondi, prima di agitarmi di nuovo per il volo.
Come si può intuire, però, l’aereo riesce ad atterrare e in men che non si dica sono in autostrada, pronto per arrivare a casa e rilassarmi con il mio infuso al radicchio, quando all’altezza di Casalpusterlengo una pattuglia della polizia mi si mette alle costole con i lampeggianti accesi.
Mi sposto a destra per farla passare, ma si sposta anche lei. Mi sposto ancora più a destra e rallento, e la pattuglia uguale. Alla fine con alcuni colpi di pistola nel lunotto posteriore mi fanno segno di accostare.
Se non altro, penso, la valigia è appena stata controllata, ma prima che possa tirare un sospiro di sollievo mi viene in mente che la macchina è rimasta alcune notti in aeroporto, incustodita sulla pista 6, e io non ho nemmeno aperto il bagagliaio prima di partire, dunque potrebbe esserci di tutto (immagino la donna delle pulizie inglese che nottetempo infila un cadavere nel baule, poi riprende l’aereo e torna a Londra).
Il poliziotto si avvicina, mi fa segno di abbassare il finestrino, io eseguo, lui mi fa segno di abbassare il mio finestrino, non quello del passeggero, io eseguo, poi lui mi scruta un attimo e mi fa: «Vada pure».
Tiro un sospiro di sollievo e riparto. Evidentemente stavano cercando qualche malvivente e io corrispondevo per alcuni dettagli alla descrizione: modello, colore e numero di cacche di uccello dell’automobile, occhiali da vista, bellezza accecante. Dopo un esame ravvicinato, però, il poliziotto si è reso conto che non ero il loro uomo.
Poco dopo essere uscito dall’autostrada, quando ormai sono arrivato, mi ferma una seconda pattuglia, a conferma che non è proprio la mia giornata.
La scena dunque si ripete, un nuovo poliziotto si avvicina ma questa volta dopo avermi esaminato si volta verso il collega e dice: «Ehi, Nicola, mi porti quella segnaletica?» e poi, guardando me: «Per favore, signore, scenda dal veicolo e appoggi le mani al cofano».
Vorrei dire: “Mi scusi, deve esserci un errore” ma è quello che dicono tutti i colpevoli, praticamente è la prova del nove.
«Cercate qualcuno?» chiedo invece senza scendere, anzi mettendo la sicura.
«Sì, Guglielmo Favoretti, il famoso criminale partenopeo, detto O’ Perticone. A proposito, lei quanto è alto?» mi chiede l’agente.
«Prima di rispondere, posso sapere quanto è alto O’ Perticone?» chiedo.
«1.89» mi fa lui.
«1.89, eh?» dico io ingobbendomi. «Ma comunque ecco i miei documenti, guardi lì: mi chiamo in modo completamente diverso».
«Documenti falsi,» dice l’agente, «che ci vuole?». E poi, scorrendo le varie voci: «Però cosa vedo qui? Altezza 1.89».
«Ma mi scusi, agente, ragioni…».
«Sta dicendo che non ragiono?».
«No! Sto solo dicendo: secondo lei se faccio un documento falso metto proprio la stessa altezza di O’ Perticone, ovvero la mia reale altezza?».
«Allora ammette di essere O’ Perticone!».
«Solo nell’esempio!».
«Comunque l’altezza non si può mica contraffare».
«Ma almeno avrei messo 1.90 o 1.88!».
«O’ Perticone è molto furbo,» dice l’agente, «questa è psicologia di secondo o terzo livello, ma noi siamo preparati a individuarla fino al quinto. Ti è andata male, Perticone!”» dice l’agente tirandomi giù a forza dall’automobile e mettendomi le manette. E io, disperato mentre mi trascina via grido: «Maronna mia! Mannaggia o’ suricillo e ‘a pezza ’nfosa!», anche se sono emiliano.
Alla fine, per mia fortuna, interviene l’agente Nicola.
«Ma non lo vedi che questo è solo un povero fesso?» dice al collega.
«Esatto!» dico io.
L’altro agente mi guarda bene, poi si lascia convincere e mi leva le manette.
«Grazie, grazie» dico profondendomi ossequiosamente in inchini mentre indietreggio verso la mia automobile. Per sdebitarmi offro loro un sacco di zafferano e tre zanne di elefante.
Una volta a casa, chiamo Peppe detto ‘a bomba.
«Uè, Pè, so’ arrivato…».
«Ue’ Pertico’, l’hai scanzata!».
«Maro’! Tengo ‘o core arravugliato comme a nu fegatiello…».
«Hai purtato ‘a robba?».
«E certo! So’ venuto pe’ chesto…».
«Si’ nu bravo guaglione, Pertico’».
11.10.25
Danesi (1456)
Ieri sera ho visto Speak no evil, il remake americano dell'inquietante nonché omonimo horror danese, un film con un finale assurdo e agghiacciante di quelli che ti fanno pensare: chi ha scritto questo film ha qualche turba mentale, tipo La casa di Jack, di Von Trier (ma forse i danesi sono così). La versione americana cerca di sfruttare la stessa idea dell'originale, cambiando però quel finale in modo da farlo avvicinare il più possibile a La sirenetta. Mi immagino i produttori che dicono: "Bella idea, peccato per quel finale assurdo e agghiacciante. Facciamo il remake ma con un classico finale americano, non assurdo e non agghiacciante, e magari mettiamoci una bella sparatoria, che non guasta mai". Peccato che la loro versione sia scialba e, sostanzialmente, inutile. Ma ok. Quello che volevo dire è: sinossi di entrambi i film: "La famigliola A conosce la famigliola B durante una vacanza in Toscana. La famigliola B invita nella propria fattoria in mezzo al nulla la famigliola A, la quale non si sa perché accetta, ma quando arrivano alla fattoria in mezzo al nulla si accorgono che la famigliola B ha qualcosa che non va, e la situazione ben presto degenera". Bene. Vediamo adesso come andrebbe Speak no evil – prendiamo la versione americana edulcorata per fare prima – se io fossi un membro della famigliola A. Prima scena: io, mia moglie e mia figlia stiamo prendendo il sole a bordo piscina, godendoci la quiete più totale, quando si avvicina il tizio mai visto della famigliola B che mi dice «Ciao, scusa, posso prendere questa sdraio?». «Certo» dico io. «Grazie» dice lui, e poi però trascina rumorosamente la sdraio per venti metri disturbando la gente fino a Teramo. Guardo mia moglie e le dico: «Prepara i bagagli, ce ne andiamo». Titoli di coda, tutti salvi.
9.10.25
Miagolii (1455)
Ieri sono uscito a cena. Quando sono rientrato, ho notato che la gatta mi aveva rigurgitato sul cuscino. L'ho notato perché quando ci ho appoggiato la faccia ho pensato: "Mm, me lo ricordavo meno poltiglioso, 'sto cuscino". Io, come del resto la gatta stessa, sono abitudinario, quindi gli altri cuscini che avevo in casa non mi andavano bene per dormire, volevo il mio. Intelligentemente, prima di uscire avevo coperto il mio cuscino preferito con la coperta preferita della gatta, poiché a lei piace dormire sulla sua coperta preferita sul mio cuscino preferito e in nessun altro modo, quando non ci sono. Così ho messo tutto nella lavasciuga, il programma più rapido diceva che i due capi sarebbero stati pronti per le quattro del mattino. E così nell'attesa, siccome non aveva la sua coperta preferita, la gatta, per protesta, ha cominciato a girare per l'appartamento miagolando, e siccome io non avevo il mio cuscino preferito ho cominciato anch'io, sempre per protesta, a girare per l'appartamento miagolando e, a proposto di proteste, dopo un po' suona alla porta il mio vicino, mi chiede se c'è modo di far smettere di miagolare i miei due gatti (anche se uno ero io, gli ho spiegato miagolando), che alle cinque deve alzarsi per andare a giocare a hockey su prato. Mi scuso con lui per l’inconveniente e gli spiego tutta la situazione e gli indico l'ora ticchettando sul display della lavasciuga: «Se vuole può restare qui con noi a girare per l'appartamento miagolando per protesta fino alle quattro» gli dico. «Volentieri» dice lui entrando, e tutti e tre riprendiamo a girare per l'appartamento e a protestare miagolando e generando così un trambusto che comprensibilmente attira uno alla volta anche gli altri vicini, i quali, venuti a conoscenza della situazione, si fermano anche loro a miagolare. Alle quattro in punto, con grande trepidazione di tutti presenti, avviene l'estrazione della coperta e del cuscino dalla lavasciuga a opera della signora Olga, incaricata in quanto proprietaria della lavanderia Olga, in centro, la quale dichiara che i capi non le sembrano ancora perfettamente asciutti, professionalmente parlando. I presenti tastano i capi e concordano, si decide quindi per un'altra mezz'ora di asciugatura e poi alle 4.35, quando siamo tutti soddisfatti del risultato, finalmente ce ne torniamo a letto.
6.10.25
Periodi (1454)
Ieri sono andato a fare una visita da uno specialista. Era una visita di controllo per confermare un precedente "non è nulla". Comunque non stiano in allarme gli specialisti di tutta la provincia, ho già pronta la prossima magagna, sembra che arrivino in sequenza come sciatori al cancelletto di partenza dello slalom gigante: "Emicrania, vai!", "Colite, tocca a te!", "Macchiolina misteriosa, adesso!". Essere ipocondriaco ovviamente non aiuta. Tuttavia ricordo quando un giorno, avevo sedici anni, stavo fermo sulla bici sotto il condominio del mio amico Max aspettando che scendesse e a un certo punto, un po’ sorpreso e seccato, mi sono guardato un dito che mi faceva male e ho pensato: "E questa settimana il dito, e la scorsa settimana la caviglia, e quella prima l'otite: ogni giorno ce n'è una, che periodo…". Ecco, caro mio giovane me stesso, volevo solo dirti: non era un "periodo".
3.10.25
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