Il battello (1458)
La settimana scorsa l’anziana madre va a una gita e si busca un raffreddore. Pochi giorni dopo c'è in programma un'altra gita e lei decide di andare lo stesso. Non dico niente. L'anziana madre torna dalla seconda gita che il raffreddore è diventato una bronchite. Non dico niente. Non dico niente anche perché ho già detto tutto troppe volte e ho imparato a non rimproverare gli anziani genitori così come non rimprovero mai la gatta: li accetto nella loro immutabile purezza. Non sollecitata, tossendo, l’anziana madre mi fa: «So che ho sbagliado». La considero una provocazione di bassa lega e dico: «Non dico niente». Per tutta risposta lei annuncia che di lì a due giorni parteciperà insieme all’anziano padre, anch’egli peraltro ammalato, a una terza gita. Ma io continuo a non dire niente. Al ritorno, mi chiama e con voce fortemente nasale mi fa: «Avevi ragione». Anche se non avevo detto niente, ma ormai riesco ad avere ragione senza nemmeno parlare. «Il baddello non ha aiudado» aggiunge. Il battello, penso, ma certo. Allora una cosa la dico. Dico: «Occhio che se ti becchi una polmonite hai centosettant'anni e quindi…». L'anziana madre, dice: «Ba no, sono forde». Io dico: «Lo scriverò sulla tua lapide». L'anziana madre ride, tossisce, riattacca e poi va a prenotare altri battelli, altre gite.
17.10.25
Il colpevole (1457)
Quando c’è un controllo ho sempre paura di essere scoperto, anche se non ho fatto niente. Succede nei negozi, dove per una frazione di secondo trattengo il fiato mentre passo attraverso il sistema antitaccheggio e mi stupisco sempre un po’ se non comincia a suonare, anche quando entro; succede al mio supermercato preferito, dove effettivamente a volte l’allarme parte un po’ a caso e le cassiere, che mi conoscono, mi fanno cenno di andare, e io allora mentre riprendo a spingere la carriola stracolma di sacchi di zafferano, smartphone e zanne di elefante sorrido e dico «Ah, questa tecnologia…»; ma succede soprattutto quando c’è un posto di blocco stradale o al controllo sicurezza negli aeroporti. E, riguardo a questi ultimi due casi, la settimana scorsa penso di aver fatto il pieno.
Ero infatti a Londra, dove vado spesso a comprare il radicchio anche se l’esperienza è a tratti snervante sia per il volo (come dice Barry Sonnenfeld, considero ogni aereo atterrato con successo “un tentativo di suicidio fallito”) sia per i controlli di sicurezza.
La mia paura è che nei miei bagagli trovino qualcosa che non va, che so, un’arma, un ordigno o della droga, anche se non ne faccio uso né la commercio. Il mio unico contatto con delle sostanze stupefacenti è stato a dodici anni, quando ho provato uno spinello.
Ero sul divano con mia nonna Rachele a guardare Colombo e lei ha insistito tanto:
«Mica male questa merda, no?» mi ha detto soffiando una nuvola di fumo e passandomi la canna.
Con la nonna guardavamo sempre anche una trasmissione dove venivano filmati i controlli aeroportuali, facendo a gara a indovinare chi tra i passeggeri appena sbarcati avesse nella pancia gli ovuli con la droga.
«Quello non me la racconta giusta» diceva la nonna, che a indovinare era bravissima. Ma io non ero portato, per me era agghiacciante anche solo l’idea di ingoiare uno di quei cosi, visto che ancora oggi devo farmi waterboarding per mandar giù una compressa grande più di una lenticchia. Tra l’altro l’ipotesi che un ovetto possa rompersi e uccidermi mi spaventerebbe molto più della galera, quindi appena sceso dall’aereo correrei incontro ai poliziotti urlando “Toglietemi gli ovuli!” (Probabilmente non capirebbero e, nel dubbio, mi crivellerebbero di colpi).
Quest’ansia costante è uno dei vari motivi per cui non sono un buon compagno di viaggio, e una qualunque delle mie ex sedicenti fidanzate potrebbe confermare.
Una volta ero all’aeroporto, sempre di Londra – ce n’è solo uno, mi pare –, con la mia fidanzata del tempo, Lucilla. In fila per i controlli, Lucilla fischiettava beata, proprio come una che è in vacanza, io invece ero come al solito molto teso e sudavo come un infiltrato nella malavita in costume da bagno sotto il sole cocente con un microfono dell’FBI appiccicato al petto mentre parla con Tommy Strippapelle.
Quando io e Lucilla siamo stati scagionati, cioè voglio dire quando ci hanno rilasciato, passandomi il dorso della mano sulla fronte ho detto: «Fiuuu! Meno male, Lucy, mi ero già visto dentro!». E lei, aggrottando la fronte: «Ma mi spieghi perché tutte le volte sei così agitato? Se sei un trafficante di droga vorrei saperlo…».
Il peggio però è stato, appunto, la settimana scorsa.
Ai controlli, la mia valigia è finita sul nastro interno, non su quello dove in genere la si prende per poi rimettersi comodamente le mutande in mezzo alla folla prima di andarsene al gate.
Mentre tutti recuperano il proprio bagaglio, io vedo la mia valigia che trotterella sul nastro sbagliato e penso: “Che sfortuna, la mia valigia ha imboccato non si sa come l’altra corsia”.
Dunque mi avvicino con cautela e massimo rispetto a un poliziotto che tra l’altro mi pare identico al cattivo de L’esercito delle dodici scimmie e gli faccio (in inglese): «Mi scusi, la mia valigia è finita – faccio un gesto con la mano come a simulare un piccolo tuffetto accidentale – sull’altro lato del…» e qui mi manca la parola, quindi opto per un generico: «Del coso».
Il poliziotto mi guarda, guarda la mia valigia e poi, con placida supponenza tipicamente anglosassone dice: «Allora verrà perquisita».
“Gesù,” penso, “ci siamo!” e mentre su un maxischermo vedo nonna Rachele che mi dice “è arrivato il momento, Eugenio, ricorda tutto quello che ti ho insegnato”, cerco di sembrare calmo per non destare ulteriori sospetti, anche se i poliziotti aeroportuali sanno capire quando uno è calmo e quando uno invece sta solo cercando di esserlo.
Ero infatti a Londra, dove vado spesso a comprare il radicchio anche se l’esperienza è a tratti snervante sia per il volo (come dice Barry Sonnenfeld, considero ogni aereo atterrato con successo “un tentativo di suicidio fallito”) sia per i controlli di sicurezza.
La mia paura è che nei miei bagagli trovino qualcosa che non va, che so, un’arma, un ordigno o della droga, anche se non ne faccio uso né la commercio. Il mio unico contatto con delle sostanze stupefacenti è stato a dodici anni, quando ho provato uno spinello.
Ero sul divano con mia nonna Rachele a guardare Colombo e lei ha insistito tanto:
«Mica male questa merda, no?» mi ha detto soffiando una nuvola di fumo e passandomi la canna.
Con la nonna guardavamo sempre anche una trasmissione dove venivano filmati i controlli aeroportuali, facendo a gara a indovinare chi tra i passeggeri appena sbarcati avesse nella pancia gli ovuli con la droga.
«Quello non me la racconta giusta» diceva la nonna, che a indovinare era bravissima. Ma io non ero portato, per me era agghiacciante anche solo l’idea di ingoiare uno di quei cosi, visto che ancora oggi devo farmi waterboarding per mandar giù una compressa grande più di una lenticchia. Tra l’altro l’ipotesi che un ovetto possa rompersi e uccidermi mi spaventerebbe molto più della galera, quindi appena sceso dall’aereo correrei incontro ai poliziotti urlando “Toglietemi gli ovuli!” (Probabilmente non capirebbero e, nel dubbio, mi crivellerebbero di colpi).
Quest’ansia costante è uno dei vari motivi per cui non sono un buon compagno di viaggio, e una qualunque delle mie ex sedicenti fidanzate potrebbe confermare.
Una volta ero all’aeroporto, sempre di Londra – ce n’è solo uno, mi pare –, con la mia fidanzata del tempo, Lucilla. In fila per i controlli, Lucilla fischiettava beata, proprio come una che è in vacanza, io invece ero come al solito molto teso e sudavo come un infiltrato nella malavita in costume da bagno sotto il sole cocente con un microfono dell’FBI appiccicato al petto mentre parla con Tommy Strippapelle.
Quando io e Lucilla siamo stati scagionati, cioè voglio dire quando ci hanno rilasciato, passandomi il dorso della mano sulla fronte ho detto: «Fiuuu! Meno male, Lucy, mi ero già visto dentro!». E lei, aggrottando la fronte: «Ma mi spieghi perché tutte le volte sei così agitato? Se sei un trafficante di droga vorrei saperlo…».
Il peggio però è stato, appunto, la settimana scorsa.
Ai controlli, la mia valigia è finita sul nastro interno, non su quello dove in genere la si prende per poi rimettersi comodamente le mutande in mezzo alla folla prima di andarsene al gate.
Mentre tutti recuperano il proprio bagaglio, io vedo la mia valigia che trotterella sul nastro sbagliato e penso: “Che sfortuna, la mia valigia ha imboccato non si sa come l’altra corsia”.
Dunque mi avvicino con cautela e massimo rispetto a un poliziotto che tra l’altro mi pare identico al cattivo de L’esercito delle dodici scimmie e gli faccio (in inglese): «Mi scusi, la mia valigia è finita – faccio un gesto con la mano come a simulare un piccolo tuffetto accidentale – sull’altro lato del…» e qui mi manca la parola, quindi opto per un generico: «Del coso».
Il poliziotto mi guarda, guarda la mia valigia e poi, con placida supponenza tipicamente anglosassone dice: «Allora verrà perquisita».
“Gesù,” penso, “ci siamo!” e mentre su un maxischermo vedo nonna Rachele che mi dice “è arrivato il momento, Eugenio, ricorda tutto quello che ti ho insegnato”, cerco di sembrare calmo per non destare ulteriori sospetti, anche se i poliziotti aeroportuali sanno capire quando uno è calmo e quando uno invece sta solo cercando di esserlo.
(Il poliziotto inglese mentre fa il test antidroga ai miei effetti personali, già pregustandone la positività.)
Mentre il poliziotto passa l’affarino per rintracciare eventuali residui di droga sui miei vestiti e persino sulle mie siringhe e sul mio bilancino, ho il culo strettissimo.
«Così stretto che non ci passerebbe nemmeno un ovulo di droga» dico all’altro agente accanto a me, pronto con le manette.
”Ma tu non usi droghe e neanche le trasporti!” cerco di ricordare a me stesso per tranquillizzarmi. Però, mentre lui passa l’affarino sui miei effetti personali, penso: “Ma metti il caso, Eugenio, metti il caso… – noi ansiosi mettiamo sempre uno o più casi – che so, magari la donna delle pulizie dell’albergo, dopo aver pulito la stanza, ha aperto la tua valigia e si è messa a farsi delle strisce di coca sui tuoi pullover. Oppure ha nascosto un pacchettino di droga dentro la tasca di un paio dei tuoi jeans”.
”Ma perché l’avrebbe fatto?!” mi chiedo poi, ma so che in realtà tutto è possibile, specie per un ansioso presunto colpevole con una fervida immaginazione catastrofistica quale io innegabilmente sono.
Alla fine il controllo dà sorprendentemente esito negativo. Mi rilasso per alcuni secondi, prima di agitarmi di nuovo per il volo.
Come si può intuire, però, l’aereo riesce ad atterrare e in men che non si dica sono in autostrada, pronto per arrivare a casa e rilassarmi con il mio infuso al radicchio, quando all’altezza di Casalpusterlengo una pattuglia della polizia mi si mette alle costole con i lampeggianti accesi.
Mi sposto a destra per farla passare, ma si sposta anche lei. Mi sposto ancora più a destra e rallento, e la pattuglia uguale. Alla fine con alcuni colpi di pistola nel lunotto posteriore mi fanno segno di accostare.
Se non altro, penso, la valigia è appena stata controllata, ma prima che possa tirare un sospiro di sollievo mi viene in mente che la macchina è rimasta alcune notti in aeroporto, incustodita sulla pista 6, e io non ho nemmeno aperto il bagagliaio prima di partire, dunque potrebbe esserci di tutto (immagino la donna delle pulizie inglese che nottetempo infila un cadavere nel baule, poi riprende l’aereo e torna a Londra).
Il poliziotto si avvicina, mi fa segno di abbassare il finestrino, io eseguo, lui mi fa segno di abbassare il mio finestrino, non quello del passeggero, io eseguo, poi lui mi scruta un attimo e mi fa: «Vada pure».
Tiro un sospiro di sollievo e riparto. Evidentemente stavano cercando qualche malvivente e io corrispondevo per alcuni dettagli alla descrizione: modello, colore e numero di cacche di uccello dell’automobile, occhiali da vista, bellezza accecante. Dopo un esame ravvicinato, però, il poliziotto si è reso conto che non ero il loro uomo.
Poco dopo essere uscito dall’autostrada, quando ormai sono arrivato, mi ferma una seconda pattuglia, a conferma che non è proprio la mia giornata.
La scena dunque si ripete, un nuovo poliziotto si avvicina ma questa volta dopo avermi esaminato si volta verso il collega e dice: «Ehi, Nicola, mi porti quella segnaletica?» e poi, guardando me: «Per favore, signore, scenda dal veicolo e appoggi le mani al cofano».
Vorrei dire: “Mi scusi, deve esserci un errore” ma è quello che dicono tutti i colpevoli, praticamente è la prova del nove.
«Cercate qualcuno?» chiedo invece senza scendere, anzi mettendo la sicura.
«Sì, Guglielmo Favoretti, il famoso criminale partenopeo, detto O’ Perticone. A proposito, lei quanto è alto?» mi chiede l’agente.
«Prima di rispondere, posso sapere quanto è alto O’ Perticone?» chiedo.
«1.89» mi fa lui.
«1.89, eh?» dico io ingobbendomi. «Ma comunque ecco i miei documenti, guardi lì: mi chiamo in modo completamente diverso».
«Documenti falsi,» dice l’agente, «che ci vuole?». E poi, scorrendo le varie voci: «Però cosa vedo qui? Altezza 1.89».
«Ma mi scusi, agente, ragioni…».
«Sta dicendo che non ragiono?».
«No! Sto solo dicendo: secondo lei se faccio un documento falso metto proprio la stessa altezza di O’ Perticone, ovvero la mia reale altezza?».
«Allora ammette di essere O’ Perticone!».
«Solo nell’esempio!».
«Comunque l’altezza non si può mica contraffare».
«Ma almeno avrei messo 1.90 o 1.88!».
«O’ Perticone è molto furbo,» dice l’agente, «questa è psicologia di secondo o terzo livello, ma noi siamo preparati a individuarla fino al quinto. Ti è andata male, Perticone!”» dice l’agente tirandomi giù a forza dall’automobile e mettendomi le manette. E io, disperato mentre mi trascina via grido: «Maronna mia! Mannaggia o’ suricillo e ‘a pezza ’nfosa!», anche se sono emiliano.
Alla fine, per mia fortuna, interviene l’agente Nicola.
«Ma non lo vedi che questo è solo un povero fesso?» dice al collega.
«Esatto!» dico io.
L’altro agente mi guarda bene, poi si lascia convincere e mi leva le manette.
«Grazie, grazie» dico profondendomi ossequiosamente in inchini mentre indietreggio verso la mia automobile. Per sdebitarmi offro loro un sacco di zafferano e tre zanne di elefante.
Una volta a casa, chiamo Peppe detto ‘a bomba.
«Uè, Pè, so’ arrivato…».
«Ue’ Pertico’, l’hai scanzata!».
«Maro’! Tengo ‘o core arravugliato comme a nu fegatiello…».
«Hai purtato ‘a robba?».
«E certo! So’ venuto pe’ chesto…».
«Si’ nu bravo guaglione, Pertico’».
«Così stretto che non ci passerebbe nemmeno un ovulo di droga» dico all’altro agente accanto a me, pronto con le manette.
”Ma tu non usi droghe e neanche le trasporti!” cerco di ricordare a me stesso per tranquillizzarmi. Però, mentre lui passa l’affarino sui miei effetti personali, penso: “Ma metti il caso, Eugenio, metti il caso… – noi ansiosi mettiamo sempre uno o più casi – che so, magari la donna delle pulizie dell’albergo, dopo aver pulito la stanza, ha aperto la tua valigia e si è messa a farsi delle strisce di coca sui tuoi pullover. Oppure ha nascosto un pacchettino di droga dentro la tasca di un paio dei tuoi jeans”.
”Ma perché l’avrebbe fatto?!” mi chiedo poi, ma so che in realtà tutto è possibile, specie per un ansioso presunto colpevole con una fervida immaginazione catastrofistica quale io innegabilmente sono.
Se non c’è droga, potrebbero comunque trovare un coltello insanguinato, penso.
“E questo, signore?” direbbe il poliziotto tenendo il coltello con la punta delle dita.
E io: “Mai visto prima!”.
“E questo signore?” direbbe l’altro poliziotto tenendo un signore con la punta delle dita.
E io: “Mai visto prima!”.
“Dicono tutti così,” direbbe il poliziotto sorseggiando una tazza di tè inglese, “e sono pronto a scommettere che il coltello combacia con la ferita in quell’addome, in quel corpo, là nel bagno del nostro rispettabilissimo aeroporto. E scommetto pure che anche il sangue combacia. Ha mai visto Fuga di mezzanotte? E Papillon? Lei è in un bel guaio, glielo dico io”.Alla fine il controllo dà sorprendentemente esito negativo. Mi rilasso per alcuni secondi, prima di agitarmi di nuovo per il volo.
Come si può intuire, però, l’aereo riesce ad atterrare e in men che non si dica sono in autostrada, pronto per arrivare a casa e rilassarmi con il mio infuso al radicchio, quando all’altezza di Casalpusterlengo una pattuglia della polizia mi si mette alle costole con i lampeggianti accesi.
Mi sposto a destra per farla passare, ma si sposta anche lei. Mi sposto ancora più a destra e rallento, e la pattuglia uguale. Alla fine con alcuni colpi di pistola nel lunotto posteriore mi fanno segno di accostare.
Se non altro, penso, la valigia è appena stata controllata, ma prima che possa tirare un sospiro di sollievo mi viene in mente che la macchina è rimasta alcune notti in aeroporto, incustodita sulla pista 6, e io non ho nemmeno aperto il bagagliaio prima di partire, dunque potrebbe esserci di tutto (immagino la donna delle pulizie inglese che nottetempo infila un cadavere nel baule, poi riprende l’aereo e torna a Londra).
Il poliziotto si avvicina, mi fa segno di abbassare il finestrino, io eseguo, lui mi fa segno di abbassare il mio finestrino, non quello del passeggero, io eseguo, poi lui mi scruta un attimo e mi fa: «Vada pure».
Tiro un sospiro di sollievo e riparto. Evidentemente stavano cercando qualche malvivente e io corrispondevo per alcuni dettagli alla descrizione: modello, colore e numero di cacche di uccello dell’automobile, occhiali da vista, bellezza accecante. Dopo un esame ravvicinato, però, il poliziotto si è reso conto che non ero il loro uomo.
Poco dopo essere uscito dall’autostrada, quando ormai sono arrivato, mi ferma una seconda pattuglia, a conferma che non è proprio la mia giornata.
La scena dunque si ripete, un nuovo poliziotto si avvicina ma questa volta dopo avermi esaminato si volta verso il collega e dice: «Ehi, Nicola, mi porti quella segnaletica?» e poi, guardando me: «Per favore, signore, scenda dal veicolo e appoggi le mani al cofano».
Vorrei dire: “Mi scusi, deve esserci un errore” ma è quello che dicono tutti i colpevoli, praticamente è la prova del nove.
«Cercate qualcuno?» chiedo invece senza scendere, anzi mettendo la sicura.
«Sì, Guglielmo Favoretti, il famoso criminale partenopeo, detto O’ Perticone. A proposito, lei quanto è alto?» mi chiede l’agente.
«Prima di rispondere, posso sapere quanto è alto O’ Perticone?» chiedo.
«1.89» mi fa lui.
«1.89, eh?» dico io ingobbendomi. «Ma comunque ecco i miei documenti, guardi lì: mi chiamo in modo completamente diverso».
«Documenti falsi,» dice l’agente, «che ci vuole?». E poi, scorrendo le varie voci: «Però cosa vedo qui? Altezza 1.89».
«Ma mi scusi, agente, ragioni…».
«Sta dicendo che non ragiono?».
«No! Sto solo dicendo: secondo lei se faccio un documento falso metto proprio la stessa altezza di O’ Perticone, ovvero la mia reale altezza?».
«Allora ammette di essere O’ Perticone!».
«Solo nell’esempio!».
«Comunque l’altezza non si può mica contraffare».
«Ma almeno avrei messo 1.90 o 1.88!».
«O’ Perticone è molto furbo,» dice l’agente, «questa è psicologia di secondo o terzo livello, ma noi siamo preparati a individuarla fino al quinto. Ti è andata male, Perticone!”» dice l’agente tirandomi giù a forza dall’automobile e mettendomi le manette. E io, disperato mentre mi trascina via grido: «Maronna mia! Mannaggia o’ suricillo e ‘a pezza ’nfosa!», anche se sono emiliano.
Alla fine, per mia fortuna, interviene l’agente Nicola.
«Ma non lo vedi che questo è solo un povero fesso?» dice al collega.
«Esatto!» dico io.
L’altro agente mi guarda bene, poi si lascia convincere e mi leva le manette.
«Grazie, grazie» dico profondendomi ossequiosamente in inchini mentre indietreggio verso la mia automobile. Per sdebitarmi offro loro un sacco di zafferano e tre zanne di elefante.
Una volta a casa, chiamo Peppe detto ‘a bomba.
«Uè, Pè, so’ arrivato…».
«Ue’ Pertico’, l’hai scanzata!».
«Maro’! Tengo ‘o core arravugliato comme a nu fegatiello…».
«Hai purtato ‘a robba?».
«E certo! So’ venuto pe’ chesto…».
«Si’ nu bravo guaglione, Pertico’».
11.10.25
Danesi (1456)
Ieri sera ho visto Speak no evil, il remake americano dell'inquietante nonché omonimo horror danese, un film con un finale assurdo e agghiacciante di quelli che ti fanno pensare: chi ha scritto questo film ha qualche turba mentale, tipo La casa di Jack, di Von Trier (ma forse i danesi sono così). La versione americana cerca di sfruttare la stessa idea dell'originale, cambiando però quel finale in modo da farlo avvicinare il più possibile a La sirenetta. Mi immagino i produttori che dicono: "Bella idea, peccato per quel finale assurdo e agghiacciante. Facciamo il remake ma con un classico finale americano, non assurdo e non agghiacciante, e magari mettiamoci una bella sparatoria, che non guasta mai". Peccato che la loro versione sia scialba e, sostanzialmente, inutile. Ma ok. Quello che volevo dire è: sinossi di entrambi i film: "La famigliola A conosce la famigliola B durante una vacanza in Toscana. La famigliola B invita nella propria fattoria in mezzo al nulla la famigliola A, la quale non si sa perché accetta, ma quando arrivano alla fattoria in mezzo al nulla si accorgono che la famigliola B ha qualcosa che non va, e la situazione ben presto degenera". Bene. Vediamo adesso come andrebbe Speak no evil – prendiamo la versione americana edulcorata per fare prima – se io fossi un membro della famigliola A. Prima scena: io, mia moglie e mia figlia stiamo prendendo il sole a bordo piscina, godendoci la quiete più totale, quando si avvicina il tizio mai visto della famigliola B che mi dice «Ciao, scusa, posso prendere questa sdraio?». «Certo» dico io. «Grazie» dice lui, e poi però trascina rumorosamente la sdraio per venti metri disturbando la gente fino a Teramo. Guardo mia moglie e le dico: «Prepara i bagagli, ce ne andiamo». Titoli di coda, tutti salvi.
9.10.25
Miagolii (1455)
Ieri sono uscito a cena. Quando sono rientrato, ho notato che la gatta mi aveva rigurgitato sul cuscino. L'ho notato perché quando ci ho appoggiato la faccia ho pensato: "Mm, me lo ricordavo meno poltiglioso, 'sto cuscino". Io, come del resto la gatta stessa, sono abitudinario, quindi gli altri cuscini che avevo in casa non mi andavano bene per dormire, volevo il mio. Intelligentemente, prima di uscire avevo coperto il mio cuscino preferito con la coperta preferita della gatta, poiché a lei piace dormire sulla sua coperta preferita sul mio cuscino preferito e in nessun altro modo, quando non ci sono. Così ho messo tutto nella lavasciuga, il programma più rapido diceva che i due capi sarebbero stati pronti per le quattro del mattino. E così nell'attesa, siccome non aveva la sua coperta preferita, la gatta, per protesta, ha cominciato a girare per l'appartamento miagolando, e siccome io non avevo il mio cuscino preferito ho cominciato anch'io, sempre per protesta, a girare per l'appartamento miagolando e, a proposto di proteste, dopo un po' suona alla porta il mio vicino, mi chiede se c'è modo di far smettere di miagolare i miei due gatti (anche se uno ero io, gli ho spiegato miagolando), che alle cinque deve alzarsi per andare a giocare a hockey su prato. Mi scuso con lui per l’inconveniente e gli spiego tutta la situazione e gli indico l'ora ticchettando sul display della lavasciuga: «Se vuole può restare qui con noi a girare per l'appartamento miagolando per protesta fino alle quattro» gli dico. «Volentieri» dice lui entrando, e tutti e tre riprendiamo a girare per l'appartamento e a protestare miagolando e generando così un trambusto che comprensibilmente attira uno alla volta anche gli altri vicini, i quali, venuti a conoscenza della situazione, si fermano anche loro a miagolare. Alle quattro in punto, con grande trepidazione di tutti presenti, avviene l'estrazione della coperta e del cuscino dalla lavasciuga a opera della signora Olga, incaricata in quanto proprietaria della lavanderia Olga, in centro, la quale dichiara che i capi non le sembrano ancora perfettamente asciutti, professionalmente parlando. I presenti tastano i capi e concordano, si decide quindi per un'altra mezz'ora di asciugatura e poi alle 4.35, quando siamo tutti soddisfatti del risultato, finalmente ce ne torniamo a letto.
6.10.25
Periodi (1454)
Ieri sono andato a fare una visita da uno specialista. Era una visita di controllo per confermare un precedente "non è nulla". Comunque non stiano in allarme gli specialisti di tutta la provincia, ho già pronta la prossima magagna, sembra che arrivino in sequenza come sciatori al cancelletto di partenza dello slalom gigante: "Emicrania, vai!", "Colite, tocca a te!", "Macchiolina misteriosa, adesso!". Essere ipocondriaco ovviamente non aiuta. Tuttavia ricordo quando un giorno, avevo sedici anni, stavo fermo sulla bici sotto il condominio del mio amico Max aspettando che scendesse e a un certo punto, un po’ sorpreso e seccato, mi sono guardato un dito che mi faceva male e ho pensato: "E questa settimana il dito, e la scorsa settimana la caviglia, e quella prima l'otite: ogni giorno ce n'è una, che periodo…". Ecco, caro mio giovane me stesso, volevo solo dirti: non era un "periodo".
3.10.25
Scema & più scemo (1453)
I
Giorni fa noto che Gâteau, la mia gatta nonché compagna di vita, ha un piccolo problema corporeo (non scendo nei dettagli per rispettare la sua privacy).
Chiamo il veterinario e spero mi dica: “Puoi descrivermi questo ‘piccolo problema?’”. Anzi, senza virgolette. E poi spero che dopo la mia descrizione dica: “Ok, ho capito. Non è niente, non ti preoccupare: passa da solo. Magari per velocizzare la cosa beviti un paio di birre, ok? Sono 50 euro. Che io devo a te, intendo. Ti faccio subito il bonifico”.
Le cose però vanno diversamente.
«Portala domani alle 16» mi dice fissando un cosiddetto appuntamento.
«Grazie,» gli dico, «possiamo fare 16 e 04?».
II
Già è un’impresa mettere una gatta fifona e paranoica nel trasportino, figuriamoci pensare di decidere anche quando. Come cercare di acchiappare le mosche volanti con le bacchette. Per dare un’idea della difficoltà dell’operazione, considerata la collaboratività della mia gatta, immaginiamo di doverci infilare mia nonna, nel trasportino. O nella gatta. Lì sarebbe solo un problema di dimensioni, comunque, perché la nonna farebbe di tutto pur di accontentare il suo adorato nipote, mentre un gatto, si sa, per accontentarti non fa niente.
Così provo a guardare dei tutorial su YouTube dal titolo Come mettere il gatto nel trasportino in dieci secondi!.
Sembra proprio fare al caso mio, penso. Peccato che i gatti di questi video abbiano la vitalità di un cotechino, o sono narcotizzati, o di peluche.
Altra particolarità: nel video, insieme al tizio che spiega come svolgere questa semplice operazione, ci sono altre quattro persone che lo aiutano: una che tiene il trasportino, una che tiene il gatto, una che tiene la gabbietta aperta e una che suona la cetra.
Alcuni prendono il gatto per la collottola e il gatto penzola placido come uno straccio bagnato e li guarda comprensivo come a dire: “È molto piacevole, continua”. Detto che non prenderei mai Gâteau a quel modo, se anche ci provassi, o se la prendessi in qualunque altro modo con l’intento di infilarla nel trasportino, diventerebbe prima un’anguilla, poi una scolopendra e poi, se insistessi, un trinciapollo.
III
«Salve. Sono ancora io. Mi scusi ma proprio non riesco a mettere la gatta nel trasportino».
«Succede, i gatti sono così. Avete provato a…».
Qui penso: con “avete” intenderà me e la mia consorte fantasma, me e la mia équipe di proprietari di gatte fifone o me e la gatta fifona stessa? Ma non sarebbe strano chiederle di aiutarmi a metterla nel trasportino? Però, chi lo sa, potrebbe funzionare: la gatta mi direbbe: “Certo, ti aiuto volentieri. Prendimi per la collottola. Così, bravo. Ora sollevami e infilami nel trasportino. Bravissimo. Ora chiudi la gabbietta prima che scappi. Ecco, ottimo. Chiudi i gancetti e… fatto! Visto? Non era poi così difficile. Eccoti una birretta premio”.
«Sono solo io, in realtà» dico al veterinario, sperando tra l’altro che si appunti la preziosa informazione per quando poi mi dice cose come “Ecco, questo collirio glielo devi mettere nove volte al giorno, sei gocce per volta e per occhio”, che non riesco a metterlo a me stesso, il collirio, perché mi dà fastidio e dopo la prima goccia mi mordo la mano e poi vado a nascondermi sotto il letto, figuriamoci se riesco a metterlo a un gatto.
«Comunque sì,» gli dico, «ho provato ma non ha funzionato. Consideri che sarebbe capace di lasciarsi morire di fame pur di non entrare…». Che, se non altro, a quel punto sarebbe facilissimo portarla, penso, non servirebbe nemmeno il trasportino, potrei mettermela direttamente intorno al collo a mo’ di sciarpa, anche se poi dubito che potrebbero risolvere il problema.
«Avete provato a usare lo spray ai feromoni?».
«Sì, abbiamo provato, siete gentile a chiederlo, messere, ma la gatta ha cominciato a rotolarsi intorno al trasportino. Va bene se la porto intorno al trasportino o deve essere proprio dentro?».
«Ok, non si preoccupi. Le do un altro appuntamento. Domani può andare?».
«Sì, certo, grazie. Facciamo alle 16 e 32 e 29 secondi, se possibile».
IV
Per fortuna abbiamo tutti un punto debole: per esempio i gatti, si sa, vanno matti per le scatole o, in generale, per tutte le cose nuove, specie se offrono cavità da esplorare, e per i divieti.
Mentre lotto per convincerla a entrare nel trasportino, provo per curiosità a prendere il contenitore dove tengo i pullover, visto che ogni volta che apro l’armadio la gatta ci si infila come un lampo, salta nel suddetto contenitore e comincia ad avvoltolarsi nei pullover, felice.
Dunque prendo il contenitore, che neanche a farlo apposta ha due belle prese d’aria o feritoie che dir si voglia, e lo metto di fianco al trasportino. Gâteau ci salta dentro all’istante, io chiudo con il coperchio e chiamo la clinica.
«Salve, sempre io. Ironia della sorte, appena ho preso una scatola la gatta ci si è infilata allegramente. Ma non posso portarla in una scatola, immagino» dico sperando che il veterinario risponda: “E perché no? Le scatole sono ottimi trasportini, sono comode, sono colorate e sono sicure, i gatti le adorano. Metta magari qualche pullover per ammorbidire il tutto, la aspettiamo! E non si dimentichi di darci l’Iban per i suoi 50 euro!”.
Il veterinario dice: «Direi di no».
«E neanche portarla in un armadio, immagino».
«No».
«Giusto. Bravissimo, era solo un test. E scommetto che non ha mai sentito il detto “Se il gatto non va alla montagna, la montagna va dal gatto, magari incentivata da un piccolo compenso extra”?» dico al veterinario, che però riattacca, probabilmente per errore.
Alla fine ho l’intuizione giusta: metto il trasportino nell’armadio, al posto del contenitore dei pullover, e dentro ci metto un pullover. Per sicurezza attacco anche un cartoncino con scritto: “Nuovo contenitore di pullover. Attenzione: pullover morbidissimi e delicatissimi, per favore non entrare”.
Quando apro l’anta dell’armadio, Gâteau arriva come un treno e senza battere ciglio si infila nel trasportino e si acciambella sul pullover. Non fa in tempo a pensare “Ah, ma che bel pull…”, che la gabbietta è chiusa.
Quando se ne accorge, mi guarda sconcertata come a dire: “Ma…”.
Io la guardo sconcertato come a dire: “Oh no, è successo di nuovo! Sei finita non si sa come in trappola. Ora devo portarti da quel signore con il camice, sai, quello che ti infila i termometri nel sedere: è l’unico in grado di liberarti”.
V
In questi nove anni ho scoperto di essere nato per vivere con una gatta, specialmente una con il carattere di Gâteau (se trascuriamo quando devo portarla dal veterinario), quindi forse ho scoperto di essere nato per vivere con Gâteau. L’unico problema è che un anno felino ne vale sette nostri, perciò insieme alla gioia c’è una lieve angoscia tipo Interstellar quando scendono sul pianeta delle maree. A parte questo, è bello.
Comunque sia, conscio della precipitazione delle prestazioni del mio intelletto a causa dell’ansia che in queste e tante altre situazioni mi soggioga, ogni volta che vado dal veterinario rammento a me stesso di fare il possibile per contenermi e non sembrare uno scemo, per esempio evitando di permettere alla suddetta ansia di prendere il sopravvento, portandomi a fare una quantità di affermazioni strambe con il fine di manipolare l’esaminatore (come ogni ipocondriaco patofobico, sono un abilissimo manipolatore di dottori, motori di ricerca e intelligenze artificiali).
Devo stare attento anche alla sindrome di Zelig – il film di Woody Allen –, che mi porta a trasformarmi a mia volta in un veterinario quando sono al cospetto di un veterinario, dicendo cose tipo “la glicogenesi epatica mi sembra regolare. Da quello che posso capire accarezzandola, intendo. Anche il catabolismo epistemologico mi sembra buono. Qui ho un campione delle sue feci, ne porto sempre uno con me. Senta, hanno un vago odore di cipresso. Qui invece ho un campione di quelle della gatta, se può servire”.
Durante la visita trattengo il fiato. Il veterinario esamina Gâteau. Gâteau soffia come un gatto a cui stanno infilando un termometro nel sedere. «Ora dovrebbe essere a posto» dice il veterinario dopo aver fatto le cose da veterinario.
VI
Terminata la visita con la promessa che tutto andrà bene, il mio corpo è pervaso da fiotti di catabolismi glicolitici, vorrei abbracciare tutti i veterinari, i pazienti e i padroni dei pazienti lì in clinica, invitarli a mangiare la pizza, ascoltare le loro storie, i loro sogni, le loro speranze. Ovviamente dopo un’ora tornerei in me e non mi fregherebbe più niente di nessuno. «Ma voi chi siete?» direi, come ridestandomi, tirando in faccia a quello davanti una fetta della mia capricciosa.
Quando il veterinario va a sedersi alla scrivania per redigere un dettagliato resoconto della visita, il mio cervello torna lentamente in funzione e mi fa: Chiedigli se la consistenza della salsa dei bocconcini può aver causato il problema… sai, quel lotto che abbiamo preso il mese scorso era più asciutto del solito e poi la bustina mi sembrava stropicciata e l’abbiamo posizionata sulla mensola un po’ storta, che forse può influire.
“Mi sembra una domanda stupida”, gli dico.
Sai quanto è difficile portarla qui, facciamo tutte le domande che ci vengono in mente!, ribatte lui.
“Tu non pensi che, se davvero la consistenza della salsa fosse il problema, il veterinario lo saprebbe?”, gli dico. “Cosa potrebbe mai rispondere? ‘Oh mio Dio, non ci avevo pensato, nessuno ci aveva mai pensato, lei è un genio! Lei ha appena rivoluzionato tutta la medicina veterinaria, dovrebbe scrivere un articolo scientifico, vincerebbe il Nobel!’?”.
Va bene, va bene, allora non chiedere, mi fa il cervello. Facciamo pure delle questioni di orgoglio, adesso, facciamo delle questioni di dignità. Improvvisamente ci interessa l’opinione degli altri. Ottimo. Siamo diventati nonna Rachele.
Mm, penso. Osservo il veterinario mentre scrive. Se avessi recuperato completamente la mia razionalità, non farei mai una domanda così stupida, ma non succederà prima di un paio d’ore, quindi la domanda esercita ancora su di me un certo fascino misterioso, e l’idea di ricevere il riconoscimento da parte della comunità scientifica, o di qualsiasi altra comunità, mi sembra allettante, perciò deglutisco e poi:
«Ehm… mi scusi… giusto una domanda…».
Il veterinario smette di scrivere e alza la testa. Mi guarda, in attesa.
«Pensavo…» proseguo io. Stai andando benissimo, mi dice il cervello. «Potrebbe essere stata la consistenza della salsa dei bocconcini a causare il problema? – digli del lotto asciutto, e della posizione sulla mensola! – L’ultimo lotto era più asciutto del solito, tra l’altro, e forse questo ha… come dire? Sì, insomma, forse ha – interferito! – interferito, sì, interferito con la mensola – eh? – che…».
Silenzio.
Il veterinario sorride, poi riprende a scrivere, scuote leggermente la testa e dice: «No».
30.9.25
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